giovedì 27 novembre 2014

Si riparte...

...ci risiamo: il libro che non arriva, i librai che non lo espongono, ecc. Business as usual. Ma del resto, abbiamo anche avuto i giornalisti secondo i quali la disoccupazione nel 1977 era ai livelli attuali, e gli economisti secondo i quali la monetizzazione si faceva coi miniassegni. Siamo sopravvissuti, siamo ancora qui, siamo sempre di più, siamo ormai diventati mainstream. È quasi fastidioso, o meglio: lo sarebbe, se il nostro scopo fosse stato passare per originali.

Ma il nostro scopo era ed è semplicemente quello di riavere indietro una vita normale.

Ricordo alcuni semplici dati di fatto: la distribuzione non la controlla l'editore (che però credo la scelga), e se le copie finiscono a ridosso di Natale poi non farete in tempo ad averle per eventuali regali (quindi pensateci prima, perché se i ritmi fossero quelli dell'ultima volta il rischio è che la prima tiratura possa esaurirsi fra il 10 e il 20, così, a spanna, col rischio di lasciarvi a secco nel momento meno opportuno).

Esaurite queste formalità, diamo un rapido sguardo indietro, rapido perché ho ancora molto da fare per gestire il #goofy3 (devo, come sapete, alcune risposte a Lippi, Boltho e Boldrin, ma siccome sono risposte tecniche, e d'altra parte desidero le capiate, è evidente che c'è da lavorare parecchio: voglio precisare che la ricerca non è un pranzo di gala, e che non si invitano colleghi per farsi fare complimenti, ma per essere aiutati ad andare avanti, dettaglio che certe discussioni sui social mi fanno intuire essere fuori dalla portata dei più).

Il mio obiettivo, come credo fosse chiaro fin dal mio primo intervento "politico", era portare il dibattito sull'euro a sinistra. Non la sinistra dei campeggi piazzaleloretisti, dei piccoli cialtroni diffamatori da un tanto al mazzo, dei velleitari inconcludenti, dei lettori di copertine. La sinistra.

Questo obiettivo, come credo abbiate capito dai giornali, è sostanzialmente raggiunto.

Ora bisogna ragionare sul dopo, e ci provo in L'Italia può farcela.

Il tramonto dell'euro illustrava la disfunzionalità dell'euro per l'Italia dal punto di vista economico. Nulla di originale, va da sé, come ricordano quelli che non capiscono di appiccicarsi addosso una patente di mediocrità quando petulanti, queruli, balbettano: "Ma noi l'avevamo detto venti anni fa!". Certo! Se è per questo Meade l'aveva detto quasi sessant'anni fa. So what? Se non vi son stati a sentire, vuol dire che non eravate interessanti, che eravate mediocri. Pace, non c'è nulla di male, come del resto non c'è nulla di male a rosicare, se lo si fa in solitudine e silenzio. Natura è matrigna per tutti: c'è chi ne approfitta per diventare Leopardi, e c'è chi ne approfitta per masturbarsi mutualmente su Twitter con i suoi amichetti. Lasciare una traccia nella storia non è obbligatorio. Qui, anche se nessuno ce l'ha chiesto (se non la nostra coscienza e, implicitamente, lo sguardo dei nostri figli) ci stiamo provando. Lo si può fare anche senza pretendere di essere originali: basta essere intellettualmente onesti, e magari anche un po' disinteressati (non guasta).

Come vedrete, non c'è nulla di originale nemmeno ne L'Italia può farcela, che affronta un tema più ampio, in qualche modo preliminare: quello della disfunzionalità politica dell'euro per l'Europa. Insomma: visto che molti non lo hanno capito dal testo precedente, in questo cerco di far capire meglio perché l'euro è fascista. Nulla di originale tranne l'autore, cioè tranne l'arte. Quella, chi non ce l'ha, non se la può dare, come il coraggio, del resto.

Naturalmente tre anni fa non si poteva dire che l'euro era un problema dal punto di vista economico, e oggi lo dicono tutti. Oggi non si può dire che è anche un enorme problema politico, ma domani, siatene certi, lo diranno tutti.

Quando tutti lo diranno, voi sarete fra i pochi a capire realmente perché.

Buona lettura.



(per inciso: credo siate anche fra i pochi a non aver bisogno di capirlo, perché se siete qui lo avete già capito. Quindi, per rendervi meno penoso un compito per voi inutile, ho anche cercato di scrivere un libro divertente. La situazione è grave, ma non è seria...)

lunedì 24 novembre 2014

L'incipit



Io sono in conflitto di interessi. Lo Stato mi paga lo stipendio, e quindi chi lo attacca, mi capirete, non può starmi troppo simpatico. Eppure con certe farraginosità burocratiche, con certe inefficienze, mi ci scontro due volte: da cittadino e da dipendente pubblico. Ma quando mia figlia è nata dopo 8 mesi di gestazione (poco più di un chilo), non mi è passato per la testa di portare sua madre in una clinica privata, e so che se malauguratamente dovessi avere un incidente, sarei portato in un pronto soccorso pubblico, perché quelli privati, per qualche strano motivo, non ci sono. Mio figlio va in una scuola pubblica, perché nella città nella quale vivo c’è una ricca serie di esempi di scuole private che sono state più refugium peccatorum che turris eburnea (magari saranno cambiate, anche perché nel frattempo lo Stato le ha finanziate lautamente, ma nel dubbio…). Non posso appassionarmi al dibattito sulla maggiore o minore felicità di pagare le tasse, perché da lavoratore dipendente, ahimè, non posso fare a meno di pagarle; ma evito di guardare la busta paga, così ignoro la differenza fra lordo e netto, e cerco di farmi bastare quest’ultimo. Occhio non vede, cuore non duole. 



(questo è l'incipit che ho scritto e che risulta dalla bozza in mio possesso...)

venerdì 21 novembre 2014

La dedica



A Rockapasso, er Palla e Uga
in ordine di apparizione

Rockapasso
Sai che la memoria non è una specialità di famiglia (della mia famiglia). Il primo ricordo che ho di te, a quanto tempo fa risale? Sono sicuro che tu lo sai. Io non provo a ricostruirlo: ogni parola che dico potrebbe essere usata contro di me. Ma di una cosa sono sicuro: avevi la treccia, cioè la “freccia”, come l’avrebbe poi chiamata quella figlia che a quel tempo era oggettivamente difficile (anche per un economista) prevedere che avresti fatto (mater semper certa). Ricordo anche l’azimut, da buon escursionista. Io ero vicino al pianoforte (o ero proprio al pianoforte?) in sala prove alla Valdese, e tu eri a ore 2, verso la porta, con qualche amica tua strana che la vita avrà travolto. Quello che è successo negli anni immediatamente successivi potrebbe lasciar supporre il contrario, ma tu eri il mio tipo. Si sa, io sono esterofilo, e tu, col tuo incarnato chiaro, i tuoi occhi verdi, risentivi abbastanza delle tue antenate inglesi da attirare la mia attenzione:



E poi era inverno. Forse presentivo qualcosa. Io invece non ero il tuo tipo, almeno fisicamente. A te piacevano i coglioncelli coi capelli ricci, pseudorivoluzionari, candidati al posto di redattore di qualche giornale di regime. Sì, insomma, quelli che se io fossi piazzaleloretista dovrebbero finire a piazzale Loreto, perché, come spiego nel libro che ti ho dedicato (al 33%), se siamo in queste condizioni la colpa è soprattutto loro (ma non amareggiamoci). Poi ricordo che un mio amico, un grande musicista, mi chiese il numero di telefono (non era epoca di cellulari), e io ti chiesi la cortesia di prestargli una matita. Quando lui te la restituì, io, con la massima naturalezza, ti dissi una cosa del tipo: “già che ci sei, prendi anche tu il mio numero...”. Sbaglio? In ogni caso, tu lo prendesti, o lo presi io. Qualcuno lo prese, questo è certo. I trombonacci ti piacevano anche all’epoca. Alcuni decenni dopo abbiamo due figli splendidi. Tu non mi sopporti (ma io sono insopportabile) e io non posso fare a meno di te (ma tu sei insostituibile). Un equilibrio di Nash (citofonare @ricpuglisi). Fatto sta che l’albero si conosce dai frutti. La metà delle amiche che ti dicevano: “Ma lascialo, quello stronzo, non vedi come ti tratta?”, e che ti ammonivano: “Ma che fai? Vai a prenderlo in Svizzera? Ma sei matta? Quello dopo un mese ti pianta!” ora piangono sui cocci dei rispettivi matrimoni con l’uomo “giusto”, e la metà degli amici che mi dicevano... be’, questo è meglio se non lo dico, non ho bevuto abbastanza... Avevo, come al solito, ragione io. Ci metto molto a capire le cose. Ma quando le ho capite non defletto.

Lo vedi che sono insopportabile?

Er Palla
Qui la datazione è più facile: 18 maggio 1999. Tutte queste storie che non crescevi, che non ti muovevi... Alla fine, ti abbiamo dovuto snidare. Una puntura sulla schiena di tua madre, poi Kaiserchnitt, e tirano fuori questo coniglio:

e ha ppiú ccarne sto gatto in d’un’orecchia
che ttutta quella che portavi addosso.

La mia perplessità era: ma io riuscirò a volergli abbastanza bene? Ecco: ha ragione Lippi quando mi parla della critica di Lucas. I parametri dei modelli possono cambiare, in seguito a uno shock. Non vale per la macroeconomia (questo lo spiegherò a lui), ma per la micro sì, fortunatamente.

Che due coglioni però educarti... Ma avevi incontrato il sergente Hartmann. Tre mesi di investimento, e il resto è filato (quasi) tutto liscio. Ora, giustamente, sei adolescente e non ti va di fare un beneamato cazzo. Fai tu. Gestire le mie frustrazioni mi dà troppo da fare, non mi lascia il tempo di rovesciarle su di te. Se avrà bisogno di te, la SStoria ti verrà a cercare, come ha fatto con me quattro anni fa, e allora non potrai restare inchiodato davanti alla Playstation. Tanto io lo so che tu sei me (povera Nat, che ora si prenderà una tracina sul grugno...). Tua madre si preoccupa, però. Che bello alzarsi al mattino e sentirvi litigare per un tre in greco! Io guardo Uga, lei guarda me, e sconsolati torniamo alla nostra colazione. E se dessimo ragione a Boldrin e Manfredi, ed eliminassimo latino e greco? Ma non servirebbe a nulla: non smettereste di litigare: voi c’avete er rapporto madre/fijo. Noi non abbiamo troppo bisogno di parlarci, o almeno non credo, e comunque sono pressoché certo che come mentore sarei ancora peggiore che come modello. Mi limito a sbaciucchiarti quando ti incontro. Mi fa un po’ impressione perché ormai sei più alto di me. Son finiti i bei tempi:


ma finché non avrai la barba te tocca. Poi, come dice l’amicus Plato (inizio del Protagora, per gli addetti ai lavori, quel genitivo assoluto, vediamo chi se lo ricorda...), sarò costretto a rivedere le mie posizioni, e dovrò ripiegare su...

Uga
Peggio mi sento... Ero a Moneglia, accompagnatore in un corso di musica. Chiama tua madre da Orvieto: emorragie. Salgo in macchina. Nella prima galleria manca poco che spiano un coglione su un motorino senza luci. Vengo giù a Citerno e vi porto a Roma (o eravate a Roma? Non ricordo). Poi andiamo al villa S. Pietro dove accettano tua madre sapendo (loro, noi no) che non c’era posto in neonatologia (e che quindi ti avrebbero dovuto portare in ambulanza all’isola Tiberina). Bastava dire: andate all’isola Tiberina. Questa volta non eravamo in clinica, ma nel meraviglioso mondo della sanità pubblica... Non potei quindi assistere all’estrazione. Quando mi ti fecero vedere eri su un lettino, sotto una luce che doveva tenerti calda. Un piccione accanto a un’arancia: l’arancia era la testa: la tsantsa di tuo nonno (Capasso). Identica. Ma le mani, le mani, erano impressionanti. Una tua mano afferrava a malapena la falange del mio mignolo. E io guardavo quella mano incredibilmente minuscola... e c’era tutto: c’erano le falangi, c’erano le unghie, c’era tutto. Le unghie, soprattutto, mi stupivano. Saranno state di un millimetro quadrato (e sì che a quei tempi i Pc me li montavo da me, ero abituato alla miniaturizzazione...). E quanta energia, quanta forza (e che gambe lunghe...). Era quell’anno che tu non ricordi, ma tutti noi sì, il 2003, quello in cui la temperatura andò sopra i 30° a maggio e ci rimase fino a quando nascesti tu. Quella sera tua madre poté respirare, ma lei era a villa S. Pietro, con un’infermiera che voleva essere chiamata dottoressa (non sia mai!) e che non le sapeva regolare l’ossitocina, e tu all’isola Tiberina, con delle infermiere che non ti davano abbastanza latte perché altrimenti, secondo loro, lo avresti rigurgitato. Ogni professione ha i suoi neoclassici, che generalmente sono dei tecnici ignoranti. E tu piangevi. La diagnosi, per loro, era chiara: avevi un cattivo carattere. Qualsiasi cosa potesse essere fatta per scoraggiare l’allattamento al seno in quel reparto veniva fatta: dal buttare nel lavandino il latte delle madri, al proporre orari assurdi per il conferimento del latte (tali da costringere le madri a fare due viaggi in centro se volevano portare il latte e stare un po’ con i figli), all’imporre regole astruse, come quelle dell’impiego di biberon per la consegna. Si sa, la plastica è più igienica del vetro. O no? Eh, Ughetta mia, se avessi avuto allora questo blog, e i pochi amici che mi sono fatto, di quel reparto e del suo primario resterebbero solo macerie (ma mi son rifatto su alcune facoltà di economia). Mi consolo pensando che sicuramente sarà morto male (o lo farà): il cosmo è in equilibrio, il che implica che non si debba augurare il male degli altri, non perché non sia giusto, ma perché non è necessario. Vedi, tu non eri cattiva, come dicevano a tua madre: volevi semplicemente 90 grammi di latte, anziché 60, per il giustificato motivo che desideravi crescere, e loro hanno provato a impedirtelo per un mese.

Certo, alcune regole cambiarono, bruscamente, quando tuo padre, il cui carattere mite ed accondiscendente (dono di famiglia) già si palesava, volle parlare con un medico, un dottorino. La domanda, espressa con tono cortese e con voce suadente, fu più o meno questa: “Mi spiegate cosa cazzo è questa storia dei biberon della Axxxx? Ma quanto cazzo vi paga la Axxxx?” Eravamo all’isola Tiberina, ma la mia sommessa richiesta di spiegazioni la sentirono anche a villa S. Pietro. Capirono che avevo studiato quanto e più di loro, che ero più incazzato con loro che preoccupato per te (non sono mai stato preoccupato per te), e che tuo zio è un magistrato. E io capii che avevano torto, altrimenti avrebbero chiamato i carabinieri. Ma considerando quanto erano sporchi i camici coi quali ci facevano entrare a coccolarvi, era facile intuire che non gli convenisse. Dal giorno dopo, potemmo portare il latte in bottigliette di vetro, e pochi giorni dopo potemmo portarti a casa:


(ed eri già grande...). Naturalmente nel dimetterti ci consigliarono del latte in polvere Axxxx, su un blocco di ricette col logo Axxxx. Da qualche parte ce l’ho ancora, se servisse (bene intendenti pauca). Tua madre, però, che è di ferro, come la Thatcher, si era tirata il latte per quaranta giorni e passa, e potemmo così fare a meno dei graziosi servigi della nota multinazionale. Nessuno credeva che ti saresti attaccata al seno, ma tu lo facesti, e finalmente potesti fare come volevi tu. Mi sono sempre chiesto se il problema fosse che l’ospedale era pubblico, o che fosse stato catturato da interessi privati. A quei tempi avevo altro a cui pensare. Sono stati fortunati. Ma nell’ultimo libro, che ti dedico al 33%, ragiono proprio su quanto i nostri problemi derivino dal settore pubblico, o dalla sua cattura da parte di interessi privati. Naturalmente questa cosa per il momento non ti interessa, e forse non ti interesserà mai. Tu vuoi fare la pasticcera. Chi vivrà vedrà...



(per inciso: ti confermo che per avere un pancione come quello della compagna del prof. Santarelli è di regola necessario accoppiarsi. Vedrai, ci si abitua a tutto: è il concetto di acquired taste, sul quale tua madre potrà darti ampie delucidazioni...)

Liber scriptus proferetur...



giovedì 20 novembre 2014

Se non c'è alternativa non c'è politica

(Credo che vi stiano sfuggendo alcuni dettagli, in mancanza dei quali non siete in grado di apprezzare pienamente il rodimento delle larve che popolano la sentina del web 2.0, gente diversamente snella come il trullo whisperer. "Non andrai mai in televisione, non sei efficace. Fai solo parole, non fai fatti. Il PD non aprirà mai un dibattito...". Certo, certo: siccome non ci siete riusciti voi, allora non posso riuscirci io: siamo in democrazia, quindi siamo tutti uguali, no? La situazione è grave ma non è seria...)



Al seminario “A quali condizioni può sopravvivere l’euro” assisteva una convitata di pietra, la signora T.i.n.a. (There is no alternative). All’euro non c’è alternativa, è parso di capire da molti interventi, il che in fondo rendeva superfluo il seminario, e quindi tanto più apprezzabile il tempo impiegato (cioè, nella loro ottica, perso) dai relatori: se non c’è alternativa, non ci sono condizioni non dico da porre, ma nemmeno da analizzare.

Era al tempo stesso paradossale e ovvio che la signora Tina sedesse con noi. [continua qui].







(come gesto di puro e assoluto sadismo verso Caterina le ho inflitto un seguace di Auriti. Ci dev'essere qualcosa nell'acqua dell'Abruzzo. Io per prudenza bevo solo acqua imbottigliata. A un certo punto lui mi chiede un parere, e io mi dichiaro incompetente. Lui accondiscende: "In effetti la materia è complessa". Io rincaro, plumbeo, asettico: "Credo di sì, penso sia proprio tanto complessa, talmente tanto che non ne ho mai sentito parlare in una rivista scientifica". Mi rivolgo a Mme. de Fischtaminel, e in un angolo del suo occhio verde percepisco l'eco del mio humour eccessivamente britannico. Ma come faccio a spiegarvelo che del signoraggio non me ne frega una beneamata fava? Come riesco a farvi capire che della riserva frazionaria vedi alla voce? Il problema non è lì, e ammesso che lo sia, vi prego, risolvetelo voi, che io ne sto risolvendo un altro. Poi vedremo quale era il più importante. Scusa Cate...)

mercoledì 19 novembre 2014

Quick post dal bunker di a/simmetrie

Nel bunker di a/simmetrie lavoriamo a pieno regime per organizzare il prossimo seminario sulle asimmetrie europee, che si svolgerà a fine aprile, con prolusioni di Lars Feld e Philippe Weil. Per voi, solo il meglio. Nel frattempo vi segnalo un intervento sul nostro ultimo convegno apparso su Noise from Amerika. Personalmente trovo il tono molto costruttivo, per cui suggerisco di disattivare la modalità "tifo da stadio". Stavo già lavorando sulle osservazioni di Boldrin e Lippi, alcune delle quali condivise da economisti di orientamento del tutto opposto, come Brancaccio, incorporandole nel modello. Ci metterò un po' a rispondere, sia perché, come sapete, il libro è finito solo mercoledì scorso (e poi ho dormito tre giorni), sia perché al risveglio mi son trovato un backlog di un mese di email da parte di INFER, che quest'anno non ha fatto un grande affare a riconfermarmi nel board (visto che sono scomparso dal loro radar: ma ora mi farò perdonare).

In ogni caso, siccome il modello e gli scenari sono citati nel lbro, che esce il 27, a quella data ci dovrà essere qualcosa di pubblicato sul sito, e naturalmente porteremo avanti il discorso rispondendo alle osservazioni dei nostri graditi discussants (incluso Andrea Boltho).

Keep calm and carini e coccolosi...


P.s.: dimenticavo! Dopo il convegno c'è anche stata da gestire la cosa del paper che era troppo lungo per i referee e troppo corto per l'editor. Questa cosa del "lungo" e "corto" rinvia al concetto di "sindrome da spogliatoio", così definita da Federico Nero (facendomi troncare dalle risate). Un'osservazione estemporanea, ma non priva di relazioni col periodo che stiamo vivendo e con le peculiarità della dialettica in atto. Sono in ritardo, vi lascio, scusate se qualche commento rimane in coda...

martedì 18 novembre 2014

La conversione lira/euro.

(di conversioni presto ce ne saranno tante, soprattutto sulla via della poltrona damascata, quindi cerchiamo di capire com'è andata l'ultima volta...)

Andando a Pescara ho ricevuto la gradita telefonata di un MEP (il mio MEP preferito, ma tanto lo dico a tutti) che mi ha chiesto un chiarimento sulla conversione lira/euro. Siccome molti di voi hanno chiesto privatamente lumi, ne approfitto per spiegarlo pubblicamente, così resta qui. Il punto è sempre il solito: che abbiamo preso una fregatura l'abbiamo capito. La fregatura però non sta tanto in quello che è successo nel 1999, cioè all'atto della fissazione dei cambi irrevocabili, e nemmeno in quello che è successo nel 2001, cioè all'atto del change over (l'adozione dell'euro come circolante). I problemi sono altri, e tutto il blog è dedicato a spiegarli. Oggi vorrei spiegarvi perché la conversione di per sé è un non problema. La sintesi è molto semplice: i rapporti delle valute nazionali con l'euro, e quindi i rapporti (impliciti) delle valute nazionali fra di loro, non sono stati alterati nel passaggio all'euro, e riflettono semplicemente la situazione che si era venuta creando nei due anni precedenti all'entrata nella moneta unica, cioè, più precisamente, riflettono la configurazione dei tassi di cambio fra le valute nazionali e quello che era il riferimento del Sistema Monetario Europeo (SME), cioè l'euro.

Per spiegarvelo, vi propongo la seguente tabbbella, che ho costruito usando i dati dell'edizione 2013/12 delle International Financial Statistics, e verificandoli con il sito Pacific Exchange Rate Servicee (molto utile).



Premessa: in questa tabella i tassi di cambio sono quotati incerto per certo, cioè come prezzo della valuta estera in valuta nazionale. È la quotazione più logica e universalmente adottata, considerando che la valuta estera, per una piccola economia aperta, normalmente è una risorsa scarsa, per cui ha senso chiedersi quanto costi in termini di valuta nazionale.

In questa quotazione un aumento del cambio indica che la valuta estera costa di più, e quindi che quella nazionale vale di meno, cioè si è svalutata.

La prima colonna riporta il cambio ITL/ECU, cioè la risposta alla domanda: quante lire costa un ECU? Nel 1980 un ECU costava 1189.12 lire.

La seconda riporta il cambio DEM/ECU, cioè la risposta alla domanda: quanti marchi costa un ECU? Nel 1980 un ECU costava 2.52 marchi.

La terza colonna riporta il cambio ITL/DEM, cioè la risposta alla domanda: quante lire costa un marco? Nel 1980 un marco costava 471.87 lire.

Poteva fare diversamente? No. Il cambio ITL/DEM lo ho calcolato come cross rate, cioè come rapporto fra il cambio ITL/ECU e il cambio DEM/ECU. Se per un ECU ti ci vogliono 1189.12 lire, oppure 2.52 marchi, allora per un marco ti ci vogliono 1189.12/2.52=471.87 lire.

Comunque, la quarta colonna riporta il tasso ITL/DEM calcolato non come cross rate, ma ripreso dalla database Pacific Exchange Rate. In questo caso i dati annuali sono media dei dati mensili, mentre nella terza colonna i cross rate sono calcolati su dati medi annuali (quelli della prima e della seconda colonna). La differenza fra le due fonti e i due metodi di calcolo è per lo più di pochi centesimi (di lira).

Osservando le serie vedete  noti episodi. Ad esempio: fra 1987 e 1992 osservate lo SME credibile. La lira non si svaluta, e il marco non si rivaluta. La lira rimane a circa 1530 sull'ECU, e il marco a circa 2.07, quindi la lira è a circa 740 sul marco (un marco costava 740 lire).

Notate poi la svalutazione fra 1992 e 1994. La lira cede, passando da 1587 a 1913 sull'Ecu. Il marco, simmetricamente, si rafforza, passando da 2.02 a 1.92. Di conseguenza il marco diventa molto più costoso in lire, passando da 785 a 996.

Nel 1996 la lira si rivaluta (l'ECU diventa meno costoso) e il marco si svaluta, dopo di che i rapporti rimangono più o meno costanti, con un rapporto fra lira e marco di circa 985 lire per marco. Attenzione! Il cambio lira/marco era arrivato a un massimo di 1139 nel 1995. Di conseguenza, un cambio a 985 corrispondeva a una rivalutazione di circa il 13% (più esattamente: il marco costava il 13% in meno per gli italiani, quindi i beni tedeschi erano più convenienti, e simmetricamente quelli italiani meno convenienti per i tedeschi).

Perché abbiamo rivalutato così tanto fra 1995 e 1996? La domanda da porsi è questa. Dopo di che, all'atto della conversione, di fatto non succede nulla di traumatico. I tassi irrevocabili sono evidenziati in giallo, e ovviamente sono vicini ai tassi adottati dal 1997 (questo proprio perché per entrare nell'euro era necessario tenere stabile il cambio per due anni). Nel 1998 un marco costava 986 lire. Entrando noi a 1936.27 e i tedeschi a 1.95583, di fatto nel 1999 un marco "implicito" costava 990 lire "implicite". Il successivo change over (cioè il fatto che l'euro sia stato poi usato come moneta per pagare il caffè al bar, e non solo come unità di conto), non cambia assolutissimamente niente.

Le teorie sul complotto riferite alla conversione quindi sono teorie del complotto. Le possiamo stampare con la stampante della Merkel, e andare avanti.

Spendo appena una parola di commiserazione sull'idea bislacca che entrare con un cambio a 1000 lire per euro ci avrebbe avvantaggiato. Se noi fossimo entrati a 1000, con la Germania a 1.95583, il rapporto implicito fra lira e marco sarebbe caduto da 986 a 511 (più o meno il valore del 1981), con una rivalutazione di quasi il 50%. I beni tedeschi ci sarebbero costati la metà (e quindi li avremmo preferiti, distruggendo le nostre imprese), e di converso ai tedeschi i nostri beni sarebbero costati il doppio (e quindi avrebbero preferito i loro, distruggendo le nostre imprese).

Si apra la discussione, ma se si apre vuol dire che l'euro ve lo meritate.

Non c'è problema: uscirò da solo...

lunedì 17 novembre 2014

TTIP: la storia si ripete

La crisi è democratica: colpisce la maggioranza. Le persone colpite, che appartengono agli ambiti più disparati, ogni tanto reagiscono, e lo fanno in base al proprio bagaglio culturale e alla propria esperienza di vita, com'è normale che sia, e ciascuno ponendo se stesso, quello che sa e quello che ha fatto come chiave di lettura privilegiata. È umano. Abbiamo così letture botaniche della crisi, letture filateliche della crisi, letture giuridiche della crisi, letture naturalistiche della crisi, e chi più ne ha più ne metta.

Da ognuno c'è qualcosa da imparare, ma rimane il fatto ineludibile che questa è una crisi economica, cioè quella cosa che si verifica quando per motivi che abbiamo illustrato tante volte la gente si trova senza soldi in tasca. Va anche ricordato che, come i marZiani dovrebbero sapere e come una lettura anche superficiale dei fatti dimostra (soprattutto in Italia), le dinamiche economiche reggono quelle politiche, che a valle reggono quelle giuridiche, ed è questo simpatico trenino, guidato dalla locomotiva "Economia", che ci porta a spasso per le interminate praterie della SStoria.

Deriva da questo semplice (ma ineludibile) fatto il vantaggio comparato di questo blog. So che dispiace a molti, ma per fortuna piace a voi, e tanto mi basta.

Oggi voglio parlarvi, da economista, e più precisamente da economista applicato, del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Parlare di un trattato commerciale in chiave economica è, lo premetto, una lettura riduttiva, e lo sappiamo benissimo. Quello che inquieta del TTIP sono alcuni aspetti giuridici, in particolare giurisdizionali, come la possibilità, che abbiamo sentito evocare più volte, per le imprese multinazionali di chiamare in giudizio gli Stati sovrani (?) che non si attengano alle prescrizioni di liberalizzazione del mercato che il trattato promuove (e che si riferiscono, badate bene, non alle barriere tariffarie - cioè ai dazi - ormai in via di definitivo smantellamento nel quadro dell'OMC, ma a quelle non tariffarie, cioè alle normative ambientali, igieniche, di sicurezza alimentare e fisica, ecc.). Insomma, la famosa fiorentina all'ormone della quale sentite ogni tanto parlare sui giornali. Rimarrà deluso Emilio Pica, che in un afflato socratico ci ha confessato di amare le donne androgine: nel meraviglioso mondo del TTIP tutti avranno una sesta di reggiseno, anche i maschietti.

(ah, Emilio, però quella me piace pure a me, sia chiaro: homo sum, nihil humani mihi alienum puto. E la Nappi la apprezzo più come filosofa...)

Questo, naturalmente, per quanto riguarda la parte "trade". Poi c'è quella investment, che lasceremo da parte.

Parlare di un trattato commerciale in chiave economica è quindi riduttivo, ma, come vedrete, indispensabile per cogliere pienamente il carattere truffaldino e antidemocratico dell'operazione in corso, un'operazione che, come solo un economista può aiutarvi a cogliere pienamente, è del tutto isomorfa a quella compiuta col Trattato di Maastricht. Vengono cioè vendute agli elettori come conquiste assodate risultati di studi metodologicamente dubbi, palesemente in conflitto di interessi, i cui risultati vengono proposti orchestrando un falso pluralismo, e dietro ai quali ci sono, ovviamente, i soliti noti.

Il prequel
Come andò con il Trattato di Maastricht lo sapete e comunque ve lo ricordo in l'Italia può farcela. Michael Emerson, Jean Pisani-Ferry e Daniel Gros, prezzolati dall'Unione Europea (perdonatemi: "pagati" non è il verbo giusto, anche perché sono morte delle persone, chiaro?), nel loro studio One market, one money, affermarono che “a major effect of EMU is that balance of payments constraints will disappear in the way they are experienced in international relations. Private markets will finance all viable borrowers, and saving and investment balances will no longer be constrained at the national level” (Emerson et al., 1990, p. 24)[i]. Notate la raffinatezza della loro linea di attacco. Studiosi come Kaldor avevano da tempo ammonito che una moneta senza stato avrebbe disintegrato politicamente l'Europa, in particolare perché avrebbe creato squilibri che sarebbe stato necessario rifinanziare attraverso un budget federale. E allora i tre porcellini che si inventano? L'uovo di Colombo: loro sostenevano che non ci sarebbe mai stato bisogno, per il Nord, di rifinanziare il debito del Sud mediante trasferimenti, perché i mercati finanziari avrebbero prestato solo a chi fosse stato in grado di generare sufficiente reddito da ripagare i debiti (i “viable borrowers”, appunto). Ritenevano, cioè, i nostri amici, che non sarebbe stato necessario costituire uno Stato europeo, almeno nell’immediato, perché il mercato, che non può sbagliare, avrebbe pensato da sé a trasferire ove necessario i fondi, all’interno della nuova area finanziariamente integrata, senza bisogno di costruire un bilancio federale, e anzi affidando ai bilanci pubblici nazionali il compito di “respond to national and regional shocks through the mechanisms of social security and other policies” (ibidem)[ii]. Non ci sarebbe quindi mai stata una crisi di debito estero all'interno dell'Unione Monetaria (tesi che alcuni economisti ancora oggi sostengono - vedi Boldrin - ma che è sconfessata dai fatti e dall'interpretazione della stessa Bce).


Infatti, che le cose non siano andate come Pisani-Ferry sosteneva (e Boldrin sostiene), ce lo ha spiegato Constâncio(2013) (ma anche De Grauwe 1998); prima che i tre porcellini si esprimessero, come sarebbero andate le cosa lo avevano chiarito Thirlwall 1991, e subito dopo Feldstein 1992, e decenni prima Kaldor 1971 e Meade 1957. Se siamo nei guai è proprio per colpa degli errori dei mercati finanziari privati, che hanno accumulato insostenibili debiti esteri all’interno dell’Eurozona. Quindi i tre porcellini mentivano sapendo di mentire, perché erano pagati per mentire.

Il percorso è sempre quello: da Pangloss ("tutto va per il meglio nel migliore dei mercati possibili") a Eichmann ("non sapevo, eseguivo gli ordini"), con biglietto di andata e ritorno, perché in mancanza dei drastici rimedi adottati dal governo israeliano nel caso in specie gli illustri colleghi rimangono disponibili ad appoggiare il progetto successivo. Ma le "incognite" delle quali parla Pisani-Ferry tutto erano fuorché "incognite": i rischi dell'Unione Monetaria erano stati denunciati dalla letteratura accademica e divulgati sulle più importanti testate finanziarie internazionali. Quindi "io non sapevo" meriterebbe il trattamento che ha avuto in altri tribunali, ma passons. Noi siamo per la non violenza, cioè per subire la violenza, non per esercitarla, perché gli altri, come vedete, tanti scrupoli purtroppo non se li fanno.

Il sequel
E oggi? Come vanno oggi le cose, con il TTIP? Nello stesso identico modo. Ci vengono proposte come verità oggettive i risultati di studi basati su una cieca fede nella capacità autoequilibrante del mercato, studi dei quali fin da ora è possibile sconfessare gli errori metodologici, ma, attenzione: gli studi vengono a valle di decisioni politiche già prese (come fu per One market, one money)...


Non lasciatevi fuorviare dal nome: nonostante la collocazione negli States, il Jeronim cui facciamo riferimento non è questo, è questo. Jere è romano de Roma, ma la sua mamma no, da cui la scelta un po' esotica del nome di battesimo. Io ho studiato Ragioneria I con suo zio, sono stato in commissione ricerca alla Sapienza con sua madre, e molti di noi sono stati, credo, clienti della sua famiglia (com'è piccolo il mondo...). Lui, a sua volta, è stato mio "cliente" quando ero ricercatore in econometria alla Sapienza, nel lontano anno accademico 2001-2002, quando discusse una tesina sulla curva di Phillips (pensa un po' te...). Ora è finito qui, da dove è stato mandato qui a lavorare sul Global Policy Model. Mi illudo di essergli stato un po' utile (o per lo meno lui la pensa così), e sono contento che ci sia un economista eterodosso infiltrato a Ginevra. Sì, perché Jere è relativamente "de sinistra". Certo, questo lo ha portato a commettere un errore cruciale: ha diffuso in Italia i risultati del suo pregevole studio tramite un forum che nessuno legge (rank in Italy: 27804, secondo Alexa oggi), perché, come sapete, ha tradito. Lo Sbilifesto merita di essere consegnato all'oblio (e li esorto a considerare che, per quello che hanno fatto - soffocare scientemente il dibattito sulla moneta unica, quel dibattito che sono riuscito a portare dove sapete - l'oblio è molto meglio dell'alternativa), però lo studio di Jere no, e visto che uno di voi me l'ha segnalato, ne faccio una simpatica sintesi per i diversamente europei e diversamente economisti. Gli faremo così risalire più di 24000 posizioni in termini di visibilità: mi aspetto una cassetta di vino per questo, va da sé...

Dunque: il copione è sempre il solito. Esattamente come in One market, one money:

1) vengono proposti come vantaggi certi e determinanti dei vantaggi aleatori ed irrisori;
2) non vengono quantificati i potenziali svantaggi;
3) i metodi di analisi adottati si basano su una anacronistica fiducia nel mercato.

Le tre caratteristiche sono ovviamente connesse. Nel caso del TTIP si aggiunge ad esse una quarta, simpatica caratteristica:

4) l'impianto del progetto è intrinsecamente contraddittorio con il progetto europeo.

Vediamo un po' perché.

Vantaggi irrisori
Cominciamo dal primo punto. Come ricorderete, One market, one money quantificava il riparmio di costi di transazione (commissioni su cambi) determinato dall'Unione monetaria in uno 0.4% del Pil, che si sarebbe evidentemente verificato una tantum. Voglio cioè dire che in un singolo anno l'abolizione di questi costi avrebbe fatto crescere il Pil dello 0.4% in più. Ma una volta aboliti i costi, i costi non ci sarebbero più stati (per definizione), e quindi già dall'anno successivo non si sarebbero avuti ulteriori effetti. Ve lo spiego in un altro modo: nell'anno dell'introduzione della moneta unica avremmo avuto 0.4 punti percentuali di crescita in più, negli anni successivi no. Chiaro?

Ovviamente Eichengreen ci si fece una bella risata sopra: "Ma come vi viene in mente di affrontare un progetto così incerto a fronte di un beneficio così irrisorio?". Ma sse sa, signora mia, la ggente so tanto tanto 'nvidiosi, gli americani c'hanno paura che je rubbamo er monopolio de 'a moneta...

(discorsi da comare che oggi si sentono solo in certi seminari...)

Oggi non va tanto meglio. Lo studio leader per la valutazione dei benefici economici del TTIP è quello del CEPR (e come ti sbagli): Reducing Transatlantic Barriers for Trade and Investment. Come nota Jere, le conclusioni di questo studio sono presentate dalla Commissione come fatti, e allora, da bravi europei, facciamo così anche noi. La Table 2 dello studio di Jere riporta una valutazione comparativa dell'impatto sul Pil europeo nel 2027 (fra 13 anni). Il CEPR (che verosimilmente è quello che ha preso più soldi dalla Commissione) è il più ottimista. In caso di realizzazione di una "full FTA" (Free Trade Area, zona di libero scambio, con pieno abbattimento delle barriere interne, ma mantenimento di barriere tariffarie differenziate verso i paesi terzi - cioè gli Usa potrebbero adottare verso la Cina dazi diversi dall'Europa, in pratica), bene, in questo caso estremamente favorevole, il beneficio sarebbe immenso: lo 0.48% in più del Pil spalmato su 13 anni (cioè un aumento del tasso di crescita medio europeo dello 0.03% l'anno circa)!

Dice: ma che mme stai a pijà per culo? No, no, sto leggendo la Table 16 a p. 46 dello studio del CEPR. Quindi, pensate, se adottassimo il TTIP subito, con un colpo di bacchetta magica, l'anno prossimo la crescita europea sarebbe non del previsto 1.35%, ma, udite udite, dell'1.38%.

Sono i dettagli a fare la delizia dell'intenditore, e questi dettagli potete leggerli solo qui!

Ora, per carità, io capisco di non poter impedire alla maggior parte di voi di adottare toni barricaderi e piazzaleloretisti (plateale il caso di Alberto49, che comincia a farmeli girare: ma non glielo spiego perché ho capito che non può capirlo). Quindi ragliare "multinazzzzionali bbbbrutte, lobby cattive, attentato alla costituzzzzione", per poi andare all'osteria a farsi un quartino di bianco, è, come dire, la soluzione naturale che si presenta a molti di voi, e, fra l'altro, è un approccio giustificatissimo: dietro questo autentico attentato alla nostra costituzione c'è in effetti il potere di lobbing delle multinazionali, che di fatto agiscono nel loro, certo non nel nostro interesse.

Ma che sorpresa, eh?

A me però, invece di questo segreto di Pulcinella (che strano! I ricchi e potenti comandano nel loro interesse e comprano i politici per farsi i fatti propri! Chi lo avrebbe mai detto?) sembra molto più sorprendente, divertente e dirompente andare a leggere sui documenti ufficiali in base a quali pretesi vantaggi questo attentato ai nostri diritti viene perpetrato. Ci stanno vendendo per una cosa che dal punto di vista statistico è del tutto insignificante. A questo punto chi vuole piazzaleloreteggiare alzerà i toni, sbraiterà, si raccoglierà sotto la bandiera della rivolta, cederà al demone del qualcosismo ("dobbiamo fare qualcosa"), malattia senile del qualunquismo.

Chi invece vuole vincere una battaglia di democrazia andrà avanti con la lettura e mi aiuterà a portare questo dibattito nelle sedi opportune (cosa che, occorre saperlo, non è gratis).

Sintesi: per la seconda volta ci stanno proponendo un progetto che comporta rischi notevoli promettendo un beneficio che perfino ricercatori in conflitto di interessi e distorti in favore del progetto (perché pagati da chi lo propugna) quantificano come irrisorio.

I potenziali svantaggi non vengono quantificati
Veniamo al secondo punto (che poi è connesso al terzo): i potenziali svantaggi non vengono quantificati (punto 2) anche e soprattutto perché l'impianto analitico utilizzato per verificare i vantaggi nega che esistano gli svantaggi, e lo fa sempre per il solito motivo: perché si basa su una cieca fiducia nel mercato (punto 3).

Del caso di One market, one money abbiamo già parlato: l'idea era che non ci sarebbero state crisi finanziarie perché i mercati finanziari non avrebbero potuto sbagliare.

Nel caso delle valutazioni del TTIP, la fiducia nel mercato si traduce nel fatto che il modello analitico utilizzato per valutare il progetto è un cosiddetto modello CGE (Computable General Equilibrium). Due fra i quattro studi che Jere analizza utilizzano proprio lo stesso modello CGE, il GTAP. Il punto è che questi modelli sono basati sul paradigma neoclassico, per cui l'offerta crea la propria domanda, ovvero, in altri termini:

1) tutti i mercati sono riportati perennemente in equilibrio (a meno di frizioni temporanee) dall'aggiustamento dei prezzi relativi, e quindi:

2) tutta la produzione offerta viene anche domandata, e quindi:

2.a) il Pil è determinato da quanto si produce, non da quanto si compra, e
2.b) non c'è disoccupazione.

Abbiamo parlato di alcune implicazioni di questo approccio qui. Ora, nel caso che ci interessa, Jere fa notare che il principale limite di questi modelli consiste nel meccanismo di adattamento alle modifiche normative da essi ipotizzato. Una liberalizzazione del commercio espone alla concorrenza internazionale settori finora protetti, e l'idea è quella darwinista che così i migliori sopravviveranno, e i peggiori andranno a fare altro. I settori più competitivi delle singole economie, quelli che hanno un vantaggio comparato, assorbiranno in tal modo le risorse che si rendono libere negli altri settori, con beneficio di tutti.

Ad esempio: se in Italia la siderurgica non è competitiva, ma l'agroalimentare sì, le acciaierie chiudono e gli operai vanno a lavorare la terra. Facile, no? Ma non ditelo agli operai dell'AST...

Ci sono però alcuni problemini evidenziati da Jere:

1) Intanto, perché questo non produca disoccupazione (e quindi spreco di risorse) a livello aggregato, occorre che i settori competitivi si espandano abbastanza da accogliere tutte le risorse (umane e altre) lasciate libere dai settori "sconfitti" dal mercato;

2) inoltre, le risorse di cui trattasi (che poi sono persone) devono essere molto poliedriche! Il modello presuppone, nelle parole di Jere, che un operaio di una catena di montaggio possa riciclarsi istantaneamente come dipendente di una software house (purché sia disposto ad accettare un salario sufficientemente basso).

3) Qui subentra un terzo problemino, che ora comincia ad essere chiaro a tutti. Il meccanismo di aggiustamento basato sulla flessibilità dei salari al ribasso conduce fatalmente a crisi di domanda. Ovviamente un modello nel quale si rappresenta solo l'offerta di questo aspetto non tiene conto. In un modello simile ci sarà sempre piena occupazione: sarà la flessibilità verso il basso del salario a indurre l'imprenditore ad assumere. Il problema, però, è che questo tipo di modello non considera il fatto che i "costi" che la riforma degli scambi internazionali spinge a tagliare (per diventare più competitivi) sono anche i redditi che sostengono la domanda aggregata di beni.

Ci sono poi problemini "minori" (come l'effetto Daverio-Zingales: maggiore esposizione a shock idiosincratici), ma quelli li lasciamo per dopo. Qui occupiamoci degli effetti sull'occupazione.

Lo studio del CEPR è commovente: andate a pagina 71:

"It should be stressed that the model is a long-run model, where sources of employment and unemployment are “structural” (rather than cyclical). In this sense, changes in labour demand are captured through wage changes (in this case rising wages). As wages increase in the experiments, this means a rising demand for labour, so that under a flexible labour supply specification, employment would increase instead."



Ovvero: la relazione fra domanda e occupazione (gli effetti ciclici) non ci interessa - il che, considerando che grazie all'euro la recessione durerà una decina di anni, qualche dubbio lo fa sorgere; le variazioni della domanda di lavoro sono segnalate solo da quelle del costo del lavoro: se i salari aumentano, significa che c'è più domanda di lavoro da parte delle imprese, e quindi più occupazione. E quindi? E quindi l'impatto sulla disoccupazione non viene nemmeno misurato, perché la disoccupazione c'è se la domanda di lavoro (da parte delle imprese) è inferiore all'offerta (da parte delle famiglie), e tutto quello che il modello misura non è quanti posti di lavoro verranno creati o distrutti dal TTIP, ma come la forza lavoro (che si suppone sarà tutta occupata) verrà riallocata da un settore all'altro, considerando separatamente gli effetti per gli "skilled" (qualificati) e i "non skilled" (non qualificati). Quindi, ad esempio, la Table 34 dello studio ci dice che nell'UE la quota di lavoratori "skilled" allocati nell'agricoltura aumenterà dello 0.07%, ma non ci dice quanti nuovi posti di lavoro ci saranno in agricoltura.

E va be'...

Qui i problemi sono due. Il primo ve l'ho detto: di posti di lavoro si preferisce non parlarne, et pour cause. Il meccanismo del modello, per i tre punti sopra esposti, può considerare solo effetti riallocativi, sotto l'ipotesi estremamente eroica che la riconversione di un operaio siderurgico in un dentista, o quella di un parrucchiere in un progettista aerospaziale sia istantanea e senza costi. L'altro aspetto è che la stima dei potenziali benefici in termini di salari (l'idea che i salari crescerebbero) è basata sull'ipotesi che la distribuzione del reddito rimanga costante. Come nota Jere, il CEPR prevede che nel 2027 la famiglia europea media guadagni 545 euro in più all'anno (45 euro in più al mese!) grazie al TTIP, ma questo, ovviamente, se la distribuzione del reddito rimane invariata, perché se invece la quota salari continua a scendere, il maggior Pil andrà ai profitti, non ai salari, e non tutte le famiglie beneficeranno in ugual misura dei mirabolanti incrementi di cui sopra (lo 0.48%).

La vera chicca
Ma concludiamo con la vera chicca. Gli effetti su Pil e redditi sono irrisori, perché sono irrisori, secondo lo stesso CEPR (cioè secondo la commissione) gli effetti sul commercio! Il commercio bilaterale crescerebbe tantissimissimo (quante volte abbiamo sentito questa storia), ma siccome crescerebbero sia le esportazioni che le importazioni, l'impatto netto non sarebbe così rilevante. Le esportazioni europee extra-UE nel 2027 in presenza di TTIP sarebbero del 5.9% superiori a quanto si avrebbe in assenza di TTIP. Il risultato di questa bella storia è che in effetti il TTIP disintegrerebbe l'Europa, nel senso di ridurre il commercio intra-zona (vedi la Table 24 dello studio CEPR). Insomma: con il TTIP gli europei commercerebbero di meno fra loro, e di più con gli Stati Uniti.

Ora, come ci siamo detti più volte, il beneficio di creare un'Unione economica è quello di avere un grande mercato che permetta di assorbire shock esterni: se gli Stati Uniti vanno per aria, la caduta della loro domanda viene compensata dal fatto che il grande mercato unico europeo in teoria sostiene l'acquisto dei beni europei. In pratica no, perché l'euro condanna a politiche di deflazione competitiva, come vi ho spiegato, ma almeno in teoria...

Con il TTIP questo beneficio teorico verrebbe ulteriormente compromesso: saremmo più legati agli Usa, e quindi più esposti agli shock che da essi provengono, pur essendo ugualmente privi di strumenti di politica fiscale, monetaria e valutaria per reagire ad essi. Come nota Jere, un esito simile non lascia tranquilli.

Io mi limito a ribadire quello che abbiamo più volte osservato: i difensori dell'euro e di questa Europa sono costretti, fatalmente, a stuprare la logica. Tutto quello che fanno contraddice platealmente tutto quello che dicono. Vogliono più Europa, e firmano dietro le nostre spalle un trattato che disintegrerà l'Europa prima commercialmente, e poi macroeconomicamente, esponendoci a qualsiasi errore di gestione dell'economia statunitense (e non è che ultimamente ce ne sian stati pochi...).


Una valutazione indipendente
Ovviamente non è necessario valutare l'impatto di un trattato commerciale con modelli di equilibrio generale. Si possono anche usare modelli basati sulla sintesi neoclassica, in cui si considerano le interazioni fra domanda e offerta (come avviene nel modello di a/simmetrie e nella maggior parte dei modelli utilizzati da banche centrali e enti di ricerca: ce l'ha ricordato il prof. Lippi a Pescara).

Nel suo working paper Jere fa questo lavoro, e lo fa, da bravo europeo, prendendo per buoni i risultati dello studio CEPR, cioè ipotizzando che il volume del commercio si sviluppi, in seguito al TTIP, secondo quanto prevedono gli studi prezzolati finanziati dalla Commissione. Cosa cambia, allora? Cambia il fatto che usando un modello keynesiano:

1) si considerano gli impatti della variazione del commercio sulla domanda aggregata;
2) si considerano gli effetti di trade diversion, cioè il fatto che la maggiore integrazione fra Europa e Stati Uniti ha effetti sulle relazioni con i paesi terzi;
3) si considerano gli impatti su domanda di lavoro, salari reali e occupazione.

E che succede, se si tiene conto di queste cose?

Lo vedete nella Table 4 dello studio di Jere. Per la maggior parte dei paesi europei il TTIP comporterebbe un peggioramento del saldo delle partite correnti, verosimilmente perché a causa della stagnazione della domanda interna (cioè dei bassi redditi) gli europei si rivolgerebbero sempre di più a beni a basso valore aggiunto, nei quali sono meno competitivi: meno golf di Cucinelli, più magliette di cotone cinesi (importate via Stati Uniti, va da sé). Risultato: un peso ulteriore sulla bilancia dei pagamenti, che per i paesi del Nord sarebbe più grave che per noi - che già siamo stesi. Il tasso di crescita dell'economia d'altra parte diminuirebbe (com'è ovvio, dato il calo della domanda estera netta), e l'Europa sperimenterebbe una perdita di circa 600000 posti di lavoro. Non è una cosa enorme, considerando che la nostra popolazione attiva è di oltre 240 milioni, ma sarebbe meglio farne a meno, soprattutto perché i redditi di chi il lavoro lo conserverebbe diminuirebbero (il modello delle Nazioni Unite prevede in Italia una diminuzione di 661 euro per occupato, anziché un aumento di 545 per famiglia), e con essi la raccolta fiscale, con impatti negativi sulla sostenibilità dei conti pubblici.

Per carità, io sono di parte. Jere mi sta simpatico e l'Europa mi sta sui coglioni, però qui stiamo parlando di analisi condotte con un modello delle Nazioni Unite, e basato su ipotesi lievemente meno ideologiche di quelle adottate dall'oste Commissione Europea per valutare il vino TTIP.

Se a questo aggiungiamo il fatto che la storia che avremmo lavorato un giorno in meno ecc. ce la siamo già sentita dire, ecco che qualche motivo di allarme sorge, e un'analisi economica ci aiuta a motivarlo in termini oggettivi, quindi dialetticamente più efficaci del piazzaleloretismo e del window flagging.


Perché?
E allora chiediamoci perché? Perché i nostri governanti ci stanno consegnando a questo progetto che ha benefici irrisori, costi potenzialmente elevati, ed è contraddittorio con la retorica dell'integrazione europea.

E la risposta è semplice: perché l'Unione Economica e Monetaria, che ci viene venduta come il momento più alto di realizzazione della nostra identità europea, di un nostro comune progetto europeo, in realtà è il momento più infimo del nostro asservimento all'ideologia e agli interessi statunitensi. Ne ho parlato tante volte, non ci ritorno, ma quello che va capito è il senso complessivo dell'operazione, che secondo me è questo: gli Usa hanno bisogno di un mercato di sbocco perché, da potenza declinante, stanno perdendo potere di signoraggio sui mercati internazionali. Gli sviluppi delle relazioni bilaterali fra i BRICS, e in particolare la dedollarizzazione degli scambi fra Cina e Russia, se dovessero generalizzarsi, significherebbero per gli Stati Uniti la fine del periodo dello "stampa (dollari) e compra (ovunque nel mondo)". Il "privilegio esorbitante", come lo chiamava Valery Giscard d'Estaing, verrebbe meno in un mondo nel quale il dollaro non fosse l'unico e solo strumento di regolazione delle transazioni sui mercati internazionali. A questo punto gli Stati Uniti non potrebbero permettersi più di essere in deficit strutturale netto verso l'estero. Puoi essere "acquirente di ultima istanza" se stampi a casa tua la moneta nella quale acquisti. Quando le cose non vanno più esattamente così, ti conviene avere una posizione equilibrata negli scambi con l'estero, altrimenti le cose si mettono male. Il +1% di esportazioni nette che il TTIP potrebbe arrecare agli Stati Uniti andrebbe proprio nel senso di ridurre il loro deficit (a costo di un aumento del nostro). L'Europa diventerebbe la periferia, in una nuova edizione del romanzo di centro e periferia, da voi tanto amato, dove gli Usa, chiedendoci l'Ani, ci inonderebbero della loro liquidità (con la quale il resto del mondo progressivamente avrebbe iniziato a nettarsi le terga), allo scopo di farci acquistare i loro simpatici bistecconi transgenici.

Sappiamo tutti quali siano gli incentivi che le élite periferiche traggono dal vendere i propri subalterni alle élite del centro, quindi di cosa ci stupiamo? Direi di nulla: BAU! Non è un cane: vuol dire business as usual.

E naturalmente qui sento i ragli dei piddini renziani (ormai tocca distinguere): "eh, ma l'euro ci aiuterebbe a difenderci!".

No!

Noooo!

Nooooooooooooo!

Le cose stanno esattamente al contrario, e ancora una volta tutto questo ci è stato detto, e detto in faccia, e detto in sedi autorevoli. L'euro non ci aiuta a difenderci nemmeno un po', e per due motivi ben evidenti. Il primo è che, come ormai sarebbe futile negare, è causa della nostra crisi, e quindi, banalmente, ci costringe ad affrontare in condizioni di debolezza qualsiasi negoziato internazionale. Il secondo è che nell'ottica statunitense l'euro è il primo passo verso la creazione di una moneta unica transatlantica, e questa non è una novità. Mundell ne parla da qualche anno, per capirci. E ora che sappiamo quali benefici ci abbia portato la moneta unica europea, e prima ancora quella italiana, siamo in grado di apprezzare quali e quanti benefici ci apporterebbe quella transatlantica.

Concludendo: nell'affrontare un tema così complesso sono io il primo a segnalarvi che l'ottica economica è necessariamente ristretta. Ma sarete d'accordo con me che aiuta a mettere a fuoco i probemi, no? Ricordatevi questo numero: +0.48% del Pil nel 2014.

Va bene, non siamo Gesù Cristo: ma lui, almeno, fu venduto per trenta denari...



(a proposito: Giuda e Eichmann hanno una cosa in comune, salvo errore...)



[i] “Il principale effetto dell’Uem sarà che il vincolo della bilancia dei pagamenti come lo sperimentiamo nelle relazioni internazionali scomparirà. I mercati privati finanzieranno ogni debitore solvibile, e il saldo fra risparmi e investimenti non sarà più vincolato a livello nazionale”. Ulteriore traduzione per persone normali (cioè per non economisti): i portoghesi (per fare un esempio) potranno fare più investimenti di quelli consentiti dalla loro posizione finanziaria, perché potranno prendere liberamente a prestito dai paesi del Nord (esempio: la Germania), che presterà i soldi solo a chi se lo merita. E infatti s’è visto...
[ii] “Rispondere a shock nazionali e regionali attraverso i meccanismi del welfare e altre politiche”.