lunedì 30 aprile 2012

Quod erat demonstrandum (9): triste España sin ventura

Forse perché troppo assorti a contemplare il passato, forse perché distratti dai due sconclusionati dilettanti della matematica, nessuno di voi (tranne i soliti noti: Basilisco e Santarelli) mi ha chiesto di commentare l'ultimo downgrade del debito spagnolo da parte di S&P: la notizia è stata data quattro giorni or sono dalle maggiori testate internazionali (Wall Street Journal), e anche dalla voce del padrone (La Repubblica).

Eppure l'evento una sua importanza ce l'ha.

Ma va detto, a vostra scusante, che se l'avete ignorato ci sono almeno due motivi.

Il primo è che probabilmente anche noi siamo ormai permeati da quello che ormai sembra essere il vero spirito europeista: quello che consiste nel fottersene allegramente di quanto accade a casa dei nostri vicini, accettando la spiegazione moralistica emessa dai media controllati dai grandi gruppi finanziari, secondo la quale quello che sta succedendo agli altri paesi è colpa dei loro governi spendaccioni, e quindi:

a) è giusto che gli succeda (fatti loro, dovevano stare più attenti!), e:
b) a noi non succederà se facciamo la cosa giusta (e la faremo perché abbiamo Super Mario).

Il secondo motivo è che in Italia la notizia è stata data abbastanza in sordina dai nostri media, i quali, ora che le cose si stanno mettendo molto ma molto male anche da noi (e ancora non abbiamo pagato l'IMU), stanno battendo la grancassa sulle serate di Berlusconi e sulla corruzione della Lega Nord. Una strategia comunicativa il cui evidente scopo è quello di fornire al popolino della sinistra, quello che da comunista si è fatto benicomunista (come dice un mio amico), una spiegazione preconfezionata per i mali che ci attendono: la colpa è della corruzione, e, naturalmente, di Berlusconi. Così almeno pare la pensi Staino, un comico che da molto tempo non mi faceva più ridere. Non leggendo più i giornali italiani, non sono in grado di sapere se faccia ancora quel lavoro che faceva sempre peggio, o se abbia invece avuto la dignità di un Watterson (per fare un esempio), ma certo, all'assemblea dei benicomunisti ha fatto una battuta molto divertente, che vorremmo ricordare come il suo canto del cigno: "non condivido comunque l'idea che Monti sia stato messo lì dal capitalismo finanziario, vorrei che ogni tanto qualcuno si ricordasse che il precedente premier era Berlusconi...".

Bravo, non condividere...

La notizia è stata data sì in sordina, ma in modo tutto sommato corretto. Ad esempio, Repubblica titola: S&P declassa la Spagna e la Fiat: "A rischio sistema bancario di Madrid". Impeccabile: a testimonianza del fatto che il potere sa benissimo con chi ha a che fare: con sprovveduti come quelli che ci descrive Marco (chiamandoli "istruiti e dotati di spirito critico"). Tanto spirito critico, hanno, questi sprovveduti, che nel leggere questo titolo avranno pensato "ecco, il governo spagnolo non è serio", e non si saranno resi conto, perché la loro "istruzione" non ci arriva, di cosa veramente dice questo titolo: il titolo dice che un'agenzia di rating ha punito, declassando il suo debito pubblico, un governo che sta facendo politiche di austerità, perché ci sono problemi nel sistema bancario... che a quanto mi risulta, però, è privato! Capite, persone istruite e dotate di spirito critico? Con queste persone istruite e dotate di spirito critico, effettivamente, vale quello che ci ricordano Marino, Claudio e Fabrizio sul loro blog, e prima di loro Edgar Allan Poe: il modo migliore per nascondere una verità è ostentarla.

E qual è questa verità?

Quella che vi ho detto fin dall'inizio: i commissari della signora Merkel stanno mettendo in opera salvataggi che non ci salveranno. Le persone che l'establishment finanziario (via Anghela) ha messo nei posti chiave stanno dando la risposta giusta alla domanda sbagliata, stanno cioè curando come se fosse un problema di debito pubblico quello che invece è un enorme problema di debito privato, che si traduce in una situazione di sofferenza del sistema bancario, non solo in Spagna. E le politiche di austerità, questi problemi di debito privato, li aggravano, perché impoverendo la popolazione (con tagli alle retribuzioni, alle pensioni, ai servizi...) rendono sempre più difficile ai tanti debitori privati rimborsare i creditori, cioè le banche. Le quali quindi vanno a gambe all'aria, e poi, tanto, si sa, too big to fail, non si può far fallire una banca: e allora ci si mette una pezza col debito pubblico (cioè, per le persone istruite e dotate di spirito critico: lo Stato si indebita per salvare, con soldi pubblici, le banche private. Si sa che con chi ha spirito critico è bene non omettere alcun passaggio).

Una dinamica che, come sappiamo, ha operato in tutti i paesi periferici (e non solo) dell'Eurozona.

Ecco, alle persone "istruite e dotate di spirito critico" qualcuno vuole cortesemente chiedere di spiegarci per quale accidenti di motivo, secondo loro, la Spagna sarebbe ora in una crisi di "debitosovrano debitosovrano debitosovrano", se prima del 2007 lo stava  abbattendo a un ritmo impressionante, come mostra la Fig. 1 di questo post che qui riporto?


Il fatto è che in Spagna, come altrove (Italia compresa, Grecia compresa) il problema non era il debito pubblico, ma quello privato estero, cioè quello contratto da famiglie e imprese con operatori non residenti. Quando è arrivata la crisi dagli Usa, i privati (famiglie, imprese, banche) hanno collassato, e lo Stato si è dovuto indebitare per sostenerli, per evitare l'Armageddon.

Ribadisco il concetto per gli ultimi arrivati, magari anche loro "istruiti" (quindi totalmente digiuni delle più elementari basi di economia, musica e matematica, che non fanno parte del bagaglio dell'intellettuale italiano: quindi non è una colpa, per carità...). Spero però che non siate dotati di "spirito critico", cari ultimi arrivati, così mi starete a sentire.

Non sto dicendo che la famiglia spagnola ha preso l'aereo per andare a Berllino, entrare in una banca e accendere lì il mutuo, come certo non lo hanno fatto le famiglie greche o italiane. Sto dicendo che se le famiglie e le imprese dei paesi periferici si sono indebitate è evidentemente per carenza di reddito e quindi di risparmio. Di conseguenza, quando andavano nella loro banca, i risparmi che ci trovavano, e che potevano prendere in prestito, non venivano dal loro paese (dove di risparmio ce n'era poco), ma da altri paesi, quelli in surplus del Nord Europa (secondo vari canali). In contabilità nazionale anche un debito che contrai con la banca sotto casa (ormai sotto ogni casa c'è una banca, lo avrete notato) è un debito estero, se la banca ha fatto raccolta all'estero (o magari è posseduta da una banca estera).

Tutto questo era ampiamente visibile nei dati.

Era visibile (e si vede nella Fig. 1) che non c'era un problema di debito pubblico in Spagna: il debito pubblico stava scendendo a rotta di collo.

Ma era anche visibile, di converso, che c'era un enorme problema di debito privato estero. Ecco, guardatevelo qui, espresso in punti di Pil:


Una spiegazione per le persone istruite e dotate di spirito critico: in rosso vedete il debito pubblico, cioè i soldi che il governo spagnolo ha chiesto a creditori nazionali (famiglie, banche) ed esteri. In blu vedete il debito estero della Spagna (non del governo spagnolo: la capite, voi, persone istruite e dotate di spirito critico, la differenza fra una nazione e il suo governo? O da quando "nazione" è diventata una parolaccia questa differenza non vi è più chiara, care persone istruite e dotate di spirito critico, alla Staino, per intenderci?). Quelli in blu sono i soldi che tutta la Spagna: governo, famiglie e imprese, ha chiesto al resto del mondo.

Bene.

Lo capite, allora, che se, ad esempio, nel 2001 la Spagna (nel suo complesso) doveva restituire al mondo qualcosa come il 127% del suo Pil (774 miliardi di dollari dell'epoca), ma il governo aveva preso in prestito (all'interno e all'estero) solo un ammontare pari al 56% del Pil, allora almeno il 71% del debito con l'estero era privato? E dico almeno, perché il 56% di debito pubblico in parte era con debitori interni, esattamente come nel caso dell'Italia. E lo vedete cosa succede dopo? Il debito estero si impenna mentre quello pubblico scende: sono le famiglie e le imprese spagnole a indebitarsi con l'estero, non lo Stato. E questo cosa significa? Significa che al di là del perché e del percome il settore privato ha contratto i debiti, la cosa giusta da fare oggi non è certo impoverirlo con politiche recessive impedendogli di rimborsarli. L'unico esito di politiche simili, come dicevo a novembre, è quello di innervosire i mercati, che sanno benissimo che così non si va da nessuna parte.

Profeta? No, ho una calcolatrice a celle solari che mi hanno dato in omaggio dal benzinaio.

All'amico Marco, se non è un troll, vorrei dire: l'istruzione e lo spirito critico dei tuoi amici e parenti arriva fino al punto di capire che se tutto il debito pubblico di un paese è 56, ma tutto il debito estero è 127, allora almeno 71, di questo debito estero, deve essere privato? Quanto ci mette una persona istruita e dotata di spirito critico a fare una sottrazione (anche quando la differenza non se la mette in tasca lei)? E quanto ci vuole a capire che se il problema è il debito privato, il rimedio non può essere l'austerità pubblica?

Ma si sa, dopo il XIX secolo, dopo l'idealismo crociano, in Italia la figura dell'intellettuale, e più in generale della persona istruita e dotata di spirito critico, si è leggermente evoluta (non dico deteriorata per non offendere Schneider). Oggi basta, per essere "istruiti", un po' di "rosa, rosae", due imparaticci di filosofia, leggere (in traduzione) i romanzi consigliati da Repubblica, e estasiarsi per van Gogh (o quello che passa il convento: oggi a Roma credo passi Dalì). Si è però ampiamente scusati se non si è "portati" per la matematica, che poi sarebbe l'aritmetica, in questo caso, se non si conoscono le lingue, e se non si sa niente di musica.

Vedete: musica, matematica, lingue. Tre forme di linguaggio. L'intellettuale post-ottocentesco, in Italia, non deve comunicare, se non in un italiano possibilmente ampolloso e dalla lieve inflessione crociana. Non deve comunicare perché non deve capire. E infatti non capisce. Guarda Staino (al quale manca solo l'inflessione...).

Casanova suonava il violino, parlava diverse lingue, conosceva bene il calcolo delle probabilità, e faceva un'altra cosa dalla quale mi dicono che si astenga il nostro attuale primo ministro. Ciononostante (direbbe Staino, primatista mondiale del non sequitur) lo spread vola. Sarà mica che anche in Italia c'è un grafico tipo la Fig. 2?


Propongo un paio di semplificazioni: se permettete, come si fa in matematica, faccio una posizione:

persone istruita e dotata di spirito critico (PIEDSC) = irrecuperabile imbecille (II)

Dedico la Fig. 2 alla PIEDSC che su CDC ha fatto questo commento: "Ma Bagnai, torna ad occuparti di quello che conosci perchè quando parli di Storia è  evidente che non sai di cosa parli. Come puoi trascurare che la situazione attuale di dipendenza dal capitale estero di quel paese è figlia di guerre civili devastanti nell'800 e 900 e poi della dittatura franchista, e non delle tue insinuazioni razzistiche?"

Come posso? Forse perché Franco è morto nel 1975, e il debito estero è decollato, guarda caso, dal 1999, come dice la Fig. 2, i cui dati tu non conosci, perché sei solo uno dei tanti II che vengono a dare lezioncine a chi ne sa più di loro? Sarà per questo. Cara PIEDSC dal simpatico nomignolo di RicBo, caro pallone gonfiato di metano, anche tu appartieni alla razza di quelli, come Staino, che non vedono il ruolo della finanza internazionale in quanto sta accadendo, e non capiscono quanto l'euro le abbia reso facile il compito. Quindi non per te, che non puoi capirlo, ma per gli altri, ribadisco la morale della Fig. 2: senza controlli dei movimenti internazionali di capitali non c'è salvezza, semplicemente perché, come Keynes ci insegna, in mercati dominati dalla logica della liquidità, i capitali sono condannati ad andare dalla parte sbagliata, seguendo il meccanismo delle bolle speculative, e lo Stato deve intervenire per impedirglielo. Eh, ma lo Stato è corrotto... Ah, grazie Repubblica per avermelo ricordato, allora facciamo come dici tu: proseguiamo con un bel governo Passera...

Triste España sin ventura. Non è morto l'erede al trono. No: è morto il buonsenso. Ma solo nel governo. Non, come in Italia, anche nei governati.
(ultima notazione metodologica: non sono permaloso. Ma il problema è che chi fa disinformazione, come quel RicBo, è oggettivamente fascista. Quindi io, da antifascista, lo sottopongo alla vostra attenzione. Almeno, fino a quando non modificheranno anche in questo la nostra costituzione).

sabato 28 aprile 2012

La filosofia del piddino: inflazione e maieutica

Preludio

Dobbiamo, dovremo, parlare di tante cose brutte. Fatemi parlare di qualcosa di bello: mia figlia.

Dunque: grande classico della valle Sarentina, il sentiero a ferro di cavallo (Hufeisen Tour). Terza tappa, da Latzfonser Kreuz  alla FlaggerschartenHütte attraverso il Tellerjoch: la più lunga. In teoria si rimane in quota, ma in pratica sali, scendi, poi risali... Bella giornata, calda, si parte. Dopo un po’, come di consueto, stacchiamo er Palla (ar piede) e la sua gentile madre (che resta per prestargli assistenza psicologica a racchettate sulla schiena). Er Palla, se sa, è contemplativo (qui in versione Kaspar David Friedrich con Durnholzer See sullo sfondo):



(scusate, metto questo per la Basilisca che non mi coglie i riferimenti. Dico, ma io sono l'unico che ha Google sul computer? Che culo!).

Io e "mi' fija" prendiamo quota su una spalla del Foltschenai Spitze, come il sentiero vuole:



Da buon tecnico ortodosso dell’economia, sono specializzato nella gestione delle aspettative. O, se volete, da buon politico, nella vendita di sogni (i più rosa sono Fogni). E quindi ar Palla, quando mi chiede quanto manca, dico sempre: “ma caro, vedi, dietro quella gobba c’è il rifugio...”. Il rifugio non c’è, ma almeno arriviamo alla gobba. Ma con mia figlia è diverso, la verità alle donne si può dire (e qui effettivamente il tacchino induttivista ci starebbe bene). Mi accorgo che ci siamo staccati e abbiamo una borraccia in due, ci aspettano almeno tre ore di marcia, un caldo fottuto, niente ombra, indietro non voglio tornare, aspettare non se ne parla, e dico la verità: “Senti, Giulia, babbo è uno scemo e si è dimenticato una borraccia, abbiamo un litro in due e dobbiamo camminare tanto. Se hai sete mi chiedi da bere, ma bevi solo due sorsi perché non so quando arriviamo e fino al rifugio non c’è acqua”. “Va bene babbo.” E avanti, per agevoli ombrosi sentieri:


(bella de papà! L'unica creatura al di sotto dei dieci anni al di sopra dei 2500 metri... Non ti dico ai rifugi... come ci guardano...).

Io ogni tanto chiedevo: “hai sete?”. “No babbo”. “Ma bevi due sorsi!” “Va bene babbo”. Glu, glu. “Grazie”. E avanti. Siamo all’ultima forcella. “Senti, amore, la vedi quell’antenna? È il rifugio, siamo arrivati. Vuoi bere?” “Sì babbo”. “Ecco...” GLU (un unico sorso da mezzo litro): la cittina aveva sete, e come, ma se l’era tenuta. Aveva capito. Io commosso.

Come oggi dal dentista (una prémière). Un bell’uomo abbronzato, occhi di ghiaccio, molto rassicurante. Lei si siede, lui ci parla il giusto, le mette il drenaggio, il tampone, prende il trapano e comincia. Si era preparato l’anestesia. “Dà fastidio? Fa male?”. “No.” “Brava”. (e io, fra me e me: “te credo, ‘a bbello! Ma tu nu' lo sai chi è quessa...”).

Ecco, avete scoperto il mio lato Mario Brega. Immortale. “Chi sso’ quelli papà?” “Due de passaggio”...

Interludio: il quarto d’ora del dilettante
A proposito di “due di passaggio”, guardate cosa mi ritrovo nello spam:

Chiedo scusa per l'anonimo, non ho account google né altri, mi chiamo Giovanni. Vengo al dunque, l'osservazione di Nino è corretta, c'è un errore banale. Si tratta di semplice aritmetica e dunque non è opinabile. L'inflazione è cresciuta dell'840% dunque 8.4 volte, la svalutazione del 45% dunque 1.45 volte. Per cui l'inflazione è 8.4/1.45 = 5.8 volte la svalutazione. Mi meraviglia sopratutto il fatto che sembri così strano ad un professore che una cosa aumentata del 45% sia aumentata di 1.45 volte. E' solo un modo diverso di dire la stessa cosa, ma evidentemente non tutti i professori lo sanno...

(voleva dire: chiedo scusa per l’anonimato... come se il fatto di non avere un account Google impedisse a uno di scrivere come si chiama... Anche qui, come al solito, rispetto filologico per l’eterografia).

Accipicchia, hai ragione, amico! Pensa... due esami di matematica finanziaria con Rino Olivieri (docente immenso, lo ricordo con una gratitudine sconfinata e ancora mi sento in colpa per non avergli chiesto la tesi, ora che capisco quanto mi ha dato e quanto quindi poteva sentirsi in diritto di avere qualcosa in cambio... ma non devo spiegarvi che sono bastardo dentro...). Che fallito che sono: tanto studio, e non so nemmeno applicare un tasso di variazione. Eh già, vedi, l’università italiana è proprio un covo di tromboni incompetenti, hai ragione, lo ammetto...

Guarda: facciamo così: siccome tu sei più bravo di me, io mi aumento lo stipendio del 45% (perché sono anche massone e raccomandato), ma a te, in un empito di meritocrazia, lo aumento del 100%. Allora: io il mio lo moltiplico per 1.45, giusto? Se sbaglio, lo so, mi correggerai, e forse anche se non sbaglio... Tu invece di quanto lo moltiplichi il tuo? Be’, se per un aumento dell’840% moltiplichi per 8.4, allora per un aumento dell’800% moltiplicherai per 8, giusto? Applichiamo il principio di induzione completa... dunque, vediamo... per un aumento del 700% moltiplico per 7, per un aumento del 600% moltiplico per 6,... per un aumento del 200% moltiplico per 2, e dunque (come dici tu), naturalmente, per un aumento del 100% moltiplico per 1. Ecco, sarai contento: oggi il tuo stipendio (anzi, quello di tutti gli italiani) è aumentato del 100%: lo abbiamo moltiplicato per uno: prendevi 1000, ma da oggi prenderai 1000´1=1000 (che secondo te è un aumento del 100%).

Attenzione signori! Qui abbiamo a che fare con un piddino di razza! Se ti scopre Fassina sei a cavallo. Pensa: puoi far campagna su questo tema: appena vado al potere vi aumento del 100% lo stipendio! Chi non ti voterebbe? E il giorno dopo essere stato eletto, sarebbe facile: moltiplicheresti per uno tutti gli stipendi, così tutti avrebbero un aumento come quello che hai avuto tu: da 1000 a 1000. Cosa dici? Ma 1000 – 1000 = 0... Ah, dimenticavo, tu la matematica la sai. Quindi ti sei accorto che hai avuto un aumento pari a zero. Ti dirò un segreto, ma non dirlo a nessuno, mi raccomando: un aumento del 100% è un raddoppio: significa moltiplicare per 2. E quindi un aumento del 200% significa moltiplicare per 3, ecc. Bello, vero? Va da sé quindi che sia tu che quel genio del tuo amico avete sbagliato intanto in termini puramente aritmetici. Ma, come ho già spiegato a quel tuo amico, questo non è l’errore più grave.

Sai, per un economista il fatto che tu abbia (o meglio, ti sia dato) un aumento di zero non è poi così strano: tu sei uno zero. Uno zero intellettuale, e forse anche uno zero umano. Ecco, guarda, se vuoi dimostrarci di non essere uno zero umano, fai una cosa: chiedi scusa. Certo non a me, come avrai capito non ce n’è bisogno:


« Pensez-vous qu’il soit à votre portée de m’offenser ? Croyez-vous que la salive envenimée de cinq cents petits bonshommes de vos amis, juchés les uns sur les autres, arriverait à baver seulement jusqu’à mes augustes orteils ? »

Ah, queste parole immortali che non avrai mai letto e di cui mai, se non googlando, potresti intuire l’autore... Non saprai mai quello che perdi, ma del resto la Natura è matrigna, e tu ce lo dimostri. No, non chiedere scusa a me: devi chiedere scusa all’Università italiana per la supponenza con la quale uno come te, uno che non sa che un aumento del 100% coincide con un raddoppio, si è permesso si esprimersi riguardo ai “professori che non sanno”.

Bene.

Se non sei un cialtrone ti scuserai. Se non ti scuserai sei un cialtrone. Il problema è e resta tuo. A me basta sapere con chi ho a che fare. E credo di saperlo già. Quindi ora spiego agli altri perché il tuo errore è veramente grave, in termini di teoria economica. E spiegherò anche loro perché c’è gente che va in giro, come te, a commettere errori simili dando lezioncine agli altri. Una storia lunga, pensa: ci riporterà all’età di Pericle, quando è nata la democrazia, e quindi sono nati i piddini. Aristofane se ne occupò (nel Pluto... che non è il cane del mio amico).


Atto primo: la morte delle ideologie
C’erano una volta le ideologie, e c’erano quindi i loro sostenitori: nel secolo scorso, qui da noi, i fascisti e i comunisti. Successero tante brutte cose, le ideologie crollarono, e i loro sostenitori, come dire, si rimpicciolirono, un po’ come il maglioncino di angora che si infili, improvvido, nel ciclo a 90°. Ci fu piazzale Loreto, e i fascisti divennero missini, poi... non l’ho capito bene (ma rimasero fascisti). Ci fu il crollo di un certo muro, e i comunisti diventarono diessini, poi piddini, poi ini... ni... i... Fading away, in un estenuante diminuendo che va avanti da trent’anni (chapeau! Chi è del mestiere sa bene quanto sia difficile sostenere un diminuendo per 30 secondi).

Bene: scomparsi, o meglio, rimpiccioliti, e anche un po’ infeltriti, i loro sostenitori, voi direte, le ideologie avranno lasciato il passo a un pensiero più libero, più fattuale, più aderente alla realtà. Poterlo pensare sarebbe bello, ma sarebbe anche, soprattutto, molto ma molto ingenuo. Le ideologie non sono un dato esogeno. Non è perché un gruppo di marziani, mascherati da Nonna Papera, assalta il Palazzo d’inverno, non è perché una torma di sciamannati viene a fare una gita a Roma, che l’uomo, così, decide di abolire la razionalità. Eh no! L’abolizione del pensiero non è il risultato di uno shock esogeno, ma è il raggiungimento endogeno di un equilibrio: pensare è faticoso, e gli uomini, quando sono stanchi, magari perché fiaccati da una crisi economica, non vogliono domande, ma risposte. E sapete come va a finire. Il pensiero ideologico, il pensiero per appartenenza (io sono di sinistra, lui è di sinistra, quindi lui ha ragione), è una forma di economia di pensiero. E così come non è necessario assaltare un palazzo per adottarla, non è nemmeno sufficiente abbattere un muro per liberarsene.

Quindi?

Quindi fascismo e comunismo, deposti, vennero subito sostituiti da un’altra ideologia. Quale? Il vincolismo.

Ogni ideologia deve partire da un’idea forte, convincente, risolutiva: appunto, da una risposta. Il vincolismo questa idea forte ce l’ha: gli italiani sono un popolo talmente scarso da non meritare di governarsi da solo. Affinché gli italiani facciano la cosa giusta, occorre che essi soggiacciano a una costrizione, a un vincolo: appunto, il vincolo esterno, la valuta forte. Ne abbiamo parlato. Somiglia molto all’idea di Mussolini che gli italiani siano un popolo di schiavi, il quale, quindi, non può che soggiacere alla dittatura di un pugno di liberti. In effetti, visti i risultati, ci sarebbe da ragionare su quanto il vincolismo possa essere considerato una versione riveduta e (politicamente) corretta del fascismo...

Ogni ideologia, poi, deve avere un testo di riferimento. Ce ne son stati tanti, nel secolo scorso, ricordate? I comunisti, ad esempio, leggevano Marx. Oh, attenzione! Di libro, va da sé, ne occorre e basta uno, come sapete, per tanti motivi. I libri costano, poi fanno polvere (anche se per il nostro amico matematico, due libri in realtà fanno polvere quanto uno), e poi è difficile trovarne due che non si contraddicano, e se hai bisogno di risposte, perché sei stanco, e perché devi abolire il pensiero, allora non vuoi certo andare in cerca di contraddizioni. La Bibbia? Significa: i libri, come sapete. E già da qui capite molte cose. Poi c’è il Libretto rosso, il Capitale, La mia battaglia, ecc.

Mi dirai: ma è anche difficile trovare un libro che non contraddica se stesso. Certo! Ma per questo ho subito una soluzione: basta non leggerlo. E infatti, a giudicare dai risultati, non è del tutto certo che i comunisti leggessero Marx, e che se lo leggessero lo capissero, e che se lo capissero se lo ricordassero. Ma in fondo sono fatti loro: ora ci sono i piddini. I quali, deposto Marx (considerato una compromettente e polverosa anticaglia), hanno fatto di un altro filosofo il loro ideologo. Con un poderoso balzo all'indietro (certo, quello in avanti non è che fosse andato bene) son tornati alle origini, alle scaturigini del pensiero democratico, adottando come loro ideologo un filosofo poco noto della Grecia di Pericle (grande esportatrice e importatrice di democrazia): Etarcos.


Atto secondo: vita e opere del filosofo Etarcos
So di cogliere di sorpresa anche Schneider, che ha già avuto modo di strabiliarsi della mia MLT (memoria a lungo termine). Ma se Schneider non ricorda chi sia Etarcos, la colpa non è sua. Il fatto è che noi di questo filosofo sappiamo molto, ma da pochissimo tempo. Solo da quando, partiti i comunisti, nel ristrutturare l’edificio delle Botteghe Oscure sono stati rinvenuti in cantina quattro rotoli di papiro che riportano le “Vite dei filosofi” di un tale dal nome impronunciabile: Enegoid Oizreal. Questo testo preziosissimo ricorda molto le “Vite dei filosofi” di Diogene Laerzio (autore che l’analisi del testo rivela coevo del nostro Enegoid), ma ne differisce per due dati: intanto, i filosofi, con geniale intuizione, son presentati in ordine cronologico inverso, dal più recente, Epicuro, al più remoto, Talete; poi, fra le vite narrate da Enegoid troviamo quella di Etarcos, che Diogene omette.

Una vita, più che parallela (altro che Mario e Mariano), direi ortogonale a quella del più noto Socrate. Anche Etarcos, come Socrate, nacque nel 470 a.C. e morì nel 399 a.C. Ma tanto sano, prestante e vigoroso era Socrate (al punto che nella battaglia di Delio salvò Senofonte quando questi cadde da cavallo, dice Diogene Laerzio, V, 22), tanto cachettico, scialbo e insignificante era Etarcos. Sul cui nome, tra l’altro, grava un etimo che la dice lunga. Pare che sia infatti la contrazione dialettale (in dialetto beota, ovviamente) di Eterarcos, l’arconte dell’etera, insomma: il prosseneta, il lenone, il magnaccia. E certo, questo Etarcos un gran che raccomandabile non pare lo sia stato. Mentre Socrate, come ci ricorda Diogene Laerzio (V, 20), si era arricchito grazie ai suoi investimenti finanziari, dei quali saggiamente consumava solo gli interessi, Etarcos viveva di espedienti passando da una malversazione all’altra, al punto di finire in carcere per il coinvolgimento in una tangente di trenta talenti versata a Sesto (non S. Giovanni, cosa avete capito, quello doveva ancora venire: “in principium erat verbum...”), e dal carcere evase, dopo aver avvelenato con la cicuta il proprio carceriere, al grido di “me ne fotto”.

Si pensa, o almeno lo pensano certamente i due di passaggio, che nella carriera accademica essere privi di scrupoli e compromessi col potere politico fornisca un ingiustificato ma decisivo vantaggio. Ma non è sempre così. Mentre Socrate di allievi ne ebbe tanti, noti e meno noti (Platone, Aristippo, Senofonte...), Etarcos, nonostante la sua abiezione, non riuscì a fondare una scuola. Ed è forse per questo che di lui è rimasta poca traccia. Come ne rimarrà di noi che viviamo nell’università austera, e che ai nostri allievi possiamo solo offrire un caffè, e un agguato al prossimo concorso.

Ma non voglio tediarvi con questi dati biografici, per quanto significativi. A noi Etarcos interessa come ideologo dei piddini. E due sono le caratteristiche di metodo che lo identificano come tale. Di Socrate tutti sanno almeno un paio di cose. La prima, è che egli identificava il sapiente con colui il quale sa di non sapere; e la seconda, che “dispiegava il suo ardore di ricerca conversando con tutti”, e “scopo delle sue conversazioni – ovvero dialoghi – fu la conquista del vero, non che gli altri rinunziassero alla loro opinione”. Il dialogo, la maieutica...

Ecco, Etarcos è invece passato alla storia del pensiero per due caratteristiche un po’ diverse, ma molto piddine. La sua frase preferita era “so di sapere”, ed è l’impiego coerente di questo metodo a spiegare il lieve abbaglio del matematico dilettante di cui al precedente interludio. Sapendo di sapere, in realtà lui non sapeva una sega, ma va bene così: ha avuto quello che gli spetta (zero).  E il metodo di ricerca di Etarcos non era il dialogo, ma il monologo: lunghi, estenuanti monologhi, che fortunatamente sono andati persi a causa della rottura di un tubo nel vetusto e oscuro edificio ex-comunista, monologhi con i quali cercava di estirpare dalla mente dell’interlocutore le sue convinzioni, o almeno di farlo addormentare.

Perché, lo avrete capito, il momento si avvicina...

Socrate praticava il metodo maieutico, la maieutiké téchne, cioè l’arte della levatrice. Con questa metafora egli intendeva esprimere il suo desiderio che fosse il suo interlocutore a partorire la verità (non preconcetta) che dalla ricerca poteva scaturire, riservandosi lui, Socrate, il ruolo accessorio di levatrice, che poi è una che ti aiuta a toglierti qualcosa da davanti. Etarcos, viceversa, aveva un metodo diverso, direi opposto: anziché toglierti qualcosa da davanti, cercava di metterti qualcosa dietro. Questo era il metodo che Etarcos applicava ai suoi discepoli (i quali, dopo un po’, cambiavano maestro), ed è lo stesso metodo che la dirigenza piddina, secoli dopo, divinis preaeceptibus formata, ha applicato ai suoi elettori. Con un discreto successo, almeno finora. Ma sapete, quel metodo lì, che è già facile da applicare individualmente, se narcotizzi l’interlocutore con un monologo, diventa facilissimo da applicare collettivamente, se narcotizzi gli elettori con il pensiero unico.

Atto terzo: l’inflazione non è il livello dei prezzi
L’abbaglio dei due dementi di cui sopra deriva appunto dall’applicazione del metodo di Etarcos, il metodo piddino: so di sapere. Non per loro, quindi, dato che essi sanno di sapere, ma per voi, ricordo brevemente cosa è l’inflazione, altrimenti credo proprio che sia difficile farvi apprezzare la sesquipedale boiata detta dal primo dei due (Nino). Il quale, non pago di aver detto una boiata, insiste, e infatti dopo aver esordito con:


Il professore ha fatto un errore imperdonabile
Svalutazione monetaria: 45%
Inflazione 840%
840/45 = 19 circa
Conclusione: l'inflazione è stata 19 volte più grande della svalutazione
Ma non si fa così....
In realtà, l'inflazione è stata 5,8 volte più grande della svalutazione, che è sempre tanto, ma non 19....
(8,40/1,45)


Rincara con:
Anche un bambino sa che se c'è un incremento del prezzo di un prodotto del 45%, significa che da 1 (cioè dal 100% precedente), per comprarlo devi pagare 1,45 (appunto il 145%). Non ci sarebbe bisogno di specificarlo, se non a un microcefalo... Pensavo che in questo blog ci fosse qualcosa di interessante ed utile. Mi devo ricredere. Mi sa che devi tornare a scuola. Ma da alunno, alle elementari. Povera scuola italiana. Addio.

Un bambino lo sa, ma lui no. Infatti, se il cialtrone applicasse il suo stesso ragionamento, bisognerebbe dividere per 1.45 non 8.4, ma 9.4, proprio perché applicare un tasso dell’x% a una variabile significa moltiplicarla per 1+x/100. Esempio: se ho 100 euro e li investo al tasso del 5%, a fine anno mi danno 100´1.05=105 euro (speriamo). E quindi: se ho 100 euro e li investo all’840%, a fine anno mi danno 100´(1+8.4)=940 euro. Se me ne dessero 840, come pensa il cialtrone, mi starebbero dando gli interessi, ma si starebbero tenendo il capitale (100)! Un po’ come se nel primo caso mi restituissero solo 5 (gli interessi), ma si tenessero 100! Capito cosa non capisce? Sorprendente, no? Ma è il principio di Etarcos: so di sapere. Certo che poi la finanziarizzazione dell'economia può andare avanti a manetta con dei matematici simili! Ha ragione Alessandro (non più amico del tornese): forse certi clienti si meritano certi mutui!

C’è poi un altro problema: con il ragionamento che stavo svolgendo io, questo discorso non c’entra assolutamente nulla. Perché l’inflazione non è il livello dei prezzi, ma il loro tasso di variazione. Nei termini dell’esempio semplice, il numero interessante non è 105 (il livello al quale si arriva, che è quanto interessa ai due) ma 5% (di quanto sono cresciuto). Perché? Semplice: perché sia i prezzi al consumo che il cambio effettivo sono misurati come numeri indici, e quindi il livello che assumono in un determinato anno non ha alcuna rilevanza, è un valore meramente convenzionale: quello che conta, e quello che ha senso confrontare, sono le variazioni percentuali (appunto, i tassi di inflazione e di svalutazione).

So che è un punto tecnico, un po’ noioso, e certo non varrebbe la pena di affrontarlo per dimostrare un dato al tempo stesso futile e self-evident: cioè che due piddini che si esprimono con l’arroganza e la sciattezza propria dei piddini sono due cialtroni. Invece vi pregherei di seguirmi in questo ragionamento, anche se è noioso, perché credo che da esso chi non sa cos’è l’inflazione (e se siete onesti, voglio vedere alla fine di questo post quanti diranno di averlo saputo) potrebbe trarre giovamento. I due non lo sanno, è chiaro. Ma sanno di sapere (una cosa che non sanno cos’è... non so... qui forse devo veramente farmi aiutare da Schneider...). E se invece volete sapere sul serio, accomodatevi...

Atto quarto: panieri e indici
L’inflazione è la variazione percentuale di un indice aggregato dei prezzi. Cos’è un indice aggregato dei prezzi? A grandissime linee potremmo dire: un prezzo “medio”. Ma proprio a grandissime linee. Uno degli indici di riferimento è quello dei prezzi al consumo. Viene costruito appunto partendo da una media di prezzi di un gran numero di beni di consumo. Se andate sul sito dell’ISTAT e vi cercate i dati, scoprirete che nel 2010 questa “media” valeva 100. Che significato ha questo numero? Possibile che la media fra il prezzo del pane, quello delle scarpe, quello di un biglietto aereo, ecc. nel 2010 fosse 100? E poi, 100 cosa? 100 euro? Che vuol dire?

In effetti, come sto cercando di farvi capire, questo numero di per sé non vuol dire molto (ed è per questo che i due sono completamente fuori strada, oltre a non essere coerenti col loro stesso ragionamento: ma, con il vostro permesso, ora li lascerei perdere, e so che me lo accorderete volentieri).

Facciamo un esempio semplice: un’economia dove si consumano due soli beni, pane e carne. Uno studio preliminare stabilisce che una ipotetica famiglia media spende il 60% del proprio reddito in pane e il 40% in carne. 60%+40%=100% (il totale della spesa). Questi “pesi” costituiscono il famoso “paniere” dell’ISTAT. I “panieri” veri, naturalmente, sono molto più complicati perché comprendono una gran quantità di prodotti, e li trovate qui.

Come si costruisce l’indice dei prezzi partendo dal paniere? Semplice. Si rilevano i prezzi dei due beni (pane e carne): facciamo ad esempio l’ipotesi che nel primo anno il pane costi 2 euro al chilo e la carne 15. Poi si moltiplica ogni prezzo per il “peso” del rispettivo bene nel paniere: quindi il prezzo del pane per 0.6 e quello della carne per 0.4. Risultato: 0.6´2=1.2, 0.4´15=6. Poi si sommano i due valori ottenuti, ricavando il valore del paniere: 1.2+6=7.2.

Questi 7.2 euro sono la spesa media. Di per sé non ha particolare significato esprimerla al suo valore monetario: non è il prezzo di un bene, ma il reddito allocato ai consumi da una famiglia “tipo”. Per questo motivo lo esprimiamo prendendo come riferimento a un anno, ad esempio l’anno di partenza. Questo significa che nel primo anno porremo il livello dei prezzi pari a 7.2/7.2=1, oppure a 100´7.2/7.2=100.

A cosa serve questa operazione? Semplice. Dato che 7.2 non è il prezzo di alcun particolare bene, ma solo un generico valore di spesa, se lo normalizziamo a 100 ci sarà più facile leggere le sue variazioni negli anni successivi, quando i prezzi che lo compongono cambieranno.

Vediamo: supponiamo che nel secondo anno il pane aumenti del 50% e la carne del 20%. Quindi il prezzo del pane diventa 2´1.5=3 e quello della carne 15´1.2=18. Di quanto è aumentato il costo della vita? Dobbiamo ricalcolare il paniere. Allora: il pane incide per 3´0.6=1.8, la carne per 18´0.4=7.2. Totale del paniere: 9. L’indice dei prezzi al consumo per l’anno 2 è quindi 100´9/7.2=125. E siccome l’anno prima era 100, si vede subito che il costo della vita è aumentato del 25%. Del resto, è anche (9-7.2)/7.2=0.25=25%. Ma esprimere la spesa del paniere come indice (cioè porla uguale a 100 dividendola per il valore del primo anno, l’anno base) rende più facili i confronti. Se il secondo anno leggiamo 125 invece di 100, sappiamo subito che la variazione percentuale è stata del 25%.

Ora, già qui vedete un po’ di cosette interessanti.

La prima è che il livello dell’indice non ha un particolare significato: la scelta dell’anno base è arbitraria, è un fatto di convenienza, potremmo anche non prendere un anno base e utilizzare come riferimento il valore monetario del paniere (cioè 7.2 il primo anno e 9 il secondo) anziché esprimerlo come indice (cioè 100 e 125), la sua variazione, che è quello che ci interessa, cioè il tasso di inflazione, sarebbe uguale. Ci avete mai fatto caso che la radio vi dice quant'è l'inflazione, ma mai quant'è l'indice dei prezzi? Perché non è interessante (tranne che per i matematici... di un certo tipo).

La seconda è che l’indice risulta dalla composizione di dinamiche dei prezzi molto diverse. Questo ha molte conseguenze. Vi faccio vedere la più semplice, che è la seguente: tranne in casi molto poco probabili, l’inflazione zero implica che in alcuni mercati i prezzi stiano scendendo. Guardatevi questo esempio:


Qui il prezzo del pane raddoppia (da 2 a 4), mentre quello della carne scende del 20% (da 15 a 12). Fatti i dovuti conti, il valore del paniere rimane a 7.2, e quindi l’indice rimane a 100, e quindi l’inflazione è zero.

Visto?

Due considerazioni: primo, va capito che l’obiettivo di stabilità dei prezzi (inflazione zero) è assurdo, perché implica che in alcuni mercati i prezzi stiano scendendo. Bene! Direte voi. Male, dico io, perché vorrei vedere voi a operare in un mercato nel quale dovete acquistare materie prime e pagare lavoratori a prezzi e salari stabili o crescenti, mentre però sapete che il prezzo del prodotto che state vendendo scenderà! E vorrei anche vedere voi ad acquistare oggi una cosa della quale sapete che domani costerà di meno! La deflazione blocca l’economia perché la strangola dal lato dell’offerta, e la scoraggia dal lato della domanda. Ricordatevi quindi sempre che chi vi propugna la virtù della stabilità dei prezzi aggregati (inflazione zero) sta uccidendo qualche settore o filiera dell’economia.

Secondo: ma secondo voi, se il prezzo del pane raddoppia ma quello della carne scende, si continuerà a mangiare la stessa proporzione di pane e carne? Forse si mangerà un po’ meno pane (che costa di più) e un po’ più carne (che costa meno). E qui si apre un mondo di considerazioni su come gestire e rivedere il paniere (operazione che in effetti viene effettuata annualmente dall’ISTAT).

Atto quinto: il tasso di cambio effettivo nominale e reale
Se ripetete lo stesso ragionamento, e invece delle quote di spesa (60%, 40%) mettete le quote commerciali (quanto pesano i paesi x e y sul commercio dell’Italia), e invece dei prezzi dei beni (prezzo del pane, prezzo della carne) mettete i tassi di cambio (cambio con x, cambio con y), avete il tasso di cambio effettivo. Il discorso è analogo: quello che conta non è il livello che l’indice assume, perché è convenzionale, ma piuttosto la sua variazione, cioè il tasso di svalutazione (ricordate che quotavamo incerto per certo nel post cui di riferiamo).

Ora... ma a noi, di tutto questo, cosa ce ne fregava?

Eravamo partiti dalla confutazione di una asserzione piddina: ogni svalutazione è inutile perché si traduce immediatamente in altrettanta inflazione e quindi i benefici in termini di competitività vengono annullati. Per capire bene cosa si intende, dobbiamo ricordarci il concetto di tasso di cambio reale, che abbiamo analizzato qui (occupandoci di un altro piddino).
Il tasso di cambio reale è il rapporto fra i prezzi nazionali e quelli esteri espressi nella stessa valuta. Se il cambio è incerto per certo, il tasso di cambio reale si esprime così:


dove p sono i prezzi nazionali, e il cambio (quantità di valuta nazionale per una unità di valuta estera) e p* è il prezzo estero. Esempio: p prezzo in lire, e lire per dollaro, p* prezzo in dollari. Vedete che se e aumenta (svaluto) il rapporto diminuisce. Il piddino dice che però se lo faccio p aumenta della stessa percentuale, e il rapporto torna come prima. Noi abbiamo visto che il piddino ha torto (nella Fig. 4 di questo post), perché quando il cambio si svaluta (e cresce) il cambio reale diminuisce. Quello che vorrei farvi capire è che in questo concetto, che è quello che interessava a noi, quello che conta, ancora una volta, è il tasso di variazione, non il livello delle variabili.

Anche qui, facciamo un esempio. Immaginiamo di partire da un mondo in cui i prezzi interni sono a 1 (abbiamo visto che il livello non conta molto, è convenzionale), quelli esteri a uno, e il cambio è a uno pure lui. Nel mondo succede che se io svaluto del 100%, portando il cambio da uno a due (il cambio raddoppia... oh, voi lo sapete che questo è un aumento del 100%, vero? Mica siete matematici etarchici?), normalmente i prezzi stanno fermi, e quindi il cambio reale scende a 0.5=1/(1´2). Secondo i piddini, invece, non si sa bene perché, se io svaluto del 100% improvvisamente i prezzi interni aumentano del 100% pure loro, e il cambio reale rimane fermo.

Ripeto: abbiamo visto che questo non è vero.

Il dato tecnico è che l’ipotesi piddina di inutilità della svalutazione nominale implica che siano uguali i tassi di variazione di prezzi e cambio, cioè l’inflazione e la svalutazione. In altre parole, questa storia funzione se il rapporto fra inflazione e svalutazione è 1. Nell’esempio: 100%/100%=1. Quello che dicevo nel post precedente è che invece questo rapporto è stato, in Italia, 840%/45%=19. Una misura rozza, perché bisognerebbe ragionare magari in termini di medie geometriche ecc. ecc., perché i prezzi crescono monotonamente mentre il cambio prima sale poi scende, ecc. Ma quello che interessa sono i tassi di variazione: il livello di un indice non interessa a nessuno.

Tranne ai matematici che son così furbi da darsi un bel aumento del 100% = 0 (come abbiamo ampiamente visto).


Epilogo e profezia
Lo so, capire quanto sono cialtroni due cialtroni è una gran fatica: ma nessuna fatica è inutile, e spero che anche questa vi sia servita a riflettere su alcuni luoghi comuni. Comunque, questo è uno dei due motivi per i quali mi scuserete se, avendola io fatta a suo tempo, questa fatica, ho reagito con energia al tono insopportabilmente saccente dei due sconclusionati dilettanti. Prevedo che ne incontreremo sempre di più. Perché questo blog, nonostante il mio intento di non parlare a tutti, ma di aiutare chi desidera approfondire, rinviando a siti più consoni quelli che hanno abolito la razionalità, sta diventando popolare. E quindi di piddini ne arriveranno sempre di più. Poveracci: il mondo che ci hanno costruito gli sta crollando addosso. Smarriti si guardano intorno. Ma non perdono la loro sicumera.

Ecco, io so che non dovrei dirlo, so che non è bello, so che non è elegante, so che non è educativo, e io in fondo sono un educatore, so che non è cristiano, ma io queste persone purtroppo, vergognandomene, cercando di smettere, le disprezzo. Disprezzo la loro ottusità, il loro “sapere di sapere”, perché è questa la base antropologica sulla quale si è fondato il successo politico di quelle due o tre lenze che conosciamo: i Prodi, i Fassini, le Fassine. Non avrebbero potuto ingannare un paese, questi qua, se non avessero potuto contare sulle pretese intellettuali di un elettorato di media acculturazione, incapace di concepire il fatto che una laurea presa con un buon voto in materia affine è solo eventualmente l’inizio di un lungo e faticoso percorso di conoscenza della realtà economica. Tutti questi intellettuali dell’“a me non la si fa”, tutti questi intellettuali dell’“io so fare i conti”, oh, quanti, quanti ne vedremo arrivare, ognuno con la sua matitina blu, pronti ad applicare il pensiero di Etarcos, ma solo in parte, altrimenti la matitina blu si sa dove finirebbe. Ognuno pronto a difendere con le unghie e coi denti l’illusione di non essere stato preso in giro, l’illusione di poter raccogliere ancora qualche briciola, l’illusione di godere ancora di un po’ di benessere. Sconfitti, più e peggio di noi, che almeno proviamo a capire quello che ci stanno facendo.

Dovrebbero quindi farmi pena.

E invece mi fanno solo rabbia. Perché non posso non ritenerli corresponsabili, attivamente corresponsabili, della distruzione di tutto quanto è per me importante: la cultura, la ricerca, e un minimo di pace sociale per goderne senza barricate in strada, con le loro “non scelte” dettate dall’appartenenza e dalla pretesa di aver saputo brillantemente cogliere il superamento di un paradigma (marxista, keynesiano). Certo, a loro non la si fa! Il mondo è cambiato, loro lo sanno! C’è la Cina, adesso, dobbiamo unirci per competere... e via scemenzando...

Piddini, se entrate qua fatelo, come vi si addice, dopo il bel capolavoro che avete fatto, col capo cosparso di cenere e il cappio al collo. Se non lo stringerete voi, non saremo certo noi a farlo: questa porta è sempre aperta. Ma “errori imperdonabili”, lezioncine di bon ton, prolusioni sull’unità della sinistra da realizzare porgendo l’altra guancia a starnazzatori fascisti, pillole di epistemologia, ecc. ecc. tenetele per voi. Anzi, attenzione: gli epistemologi, in particolare, sono avvertiti: Marco Basilisco mi ha detto che d’ora in avanti sarà lui a occuparsene di persona. E siccome è un sentimentale e ama il bricolage, credo che abbia conservato da qualche parte una di quelle chiavi inglesi che ai bei tempi (per lui) si usavano per dialogare socraticamente con i provocatori. Nel tentativo, va da sé, di pervenire a una comune verità, e certo non per indurre gli altri a rinunziare alla propria opinione. Ma a rinunziare di scassare i cabasisi, ecco, quello magari sì.

venerdì 27 aprile 2012

Lavoro mobile o scala mobile?

Lavoro mobile
Ricevo e pubblico (volentieri) da parte di Marco Basilisco

Caro Alberto,

ho letto il tuo ultimo post con le lacrime agli occhi tra risate e commozione. Ho riso perché di fronte alla più difficile delle arti, quella del comico, bisogna arrendersi. Ho riso di fronte alla tua analisi appassionata al servizio della verità, lucida, spietata, selvaggia.

Ma un po' mi sono commosso (i vecchi, si sa, hanno la lacrima facile) perché chi è stato giovane negli anni settanta (e specialmente nel biennio rosso 75-76) ricorda sicuramente le elezioni del 76, le aspettative ingenue e gigantesche che si provavano genericamente a sinistra. Si pensava di essere a un passo da un vero cambiamento politico, da un governo di partiti di sinistra interni a una tradizione socialista e comunista che avrebbero finalmente portato al potere una nuova classe dirigente, con un diverso modello sociale in testa. Era un sogno, purtroppo. E tu mi confermi, a suon di grafici, che quel sogno faceva una paura tremenda alla borghesia italiana. 
E ci credo! Sai, allora una vicenda come quella del G8 di Genova non sarebbe mai successa. Andateci a discutere con i servizi d'ordine dell'epoca! Ma controllate di aver pagato la rata dell'assicurazione sanitaria e di aver un buon ortopedico... Altro che centinaia di feriti inermi per terra, i salariati erano comunque organizzati.
Ma la vera commozione l'ho provata pensando a mio padre poliziotto (suo malgrado). Aveva una fifa blu, sapeva che facevamo politica e dei rischi che c'erano. Però aveva un suo senso dell'umorismo, da vecchio ex-contadino siciliano che ne ha viste tante: "Sti minchia i manifestaziuni, ci ati a gghiri pe' fuorza? Comunque picciotti a ogni manifestazione in più aumenta lo stipendio ..." e giù a ridere. Quindi senza aver studiato la cointegrazione il mio caro papà sospettava l'esistenza di una qualche relazione causale tra le moltitudini di bandiere rosse in piazza e il fatto che il meccanismo della scala mobile bilanciava (eccome!) anche un'inflazione a due cifre. Scala mobile? Non sarà una parolaccia? Chiedo scusa.
Mi permetto di dedicare il tuo post (e tutte le tue analisi) a mio padre e a tutti i morti di fame che nel dopoguerra si sono illusi di strappare i figli a una povertà secolare lavorando come bestie. Sono certo che se papà fosse vivo si darebbe da fare per spiegare le zone monetarie ottimali a tutto il vicinato.
P.S. Un caro saluto da parte mia a tutti quelli che credono a un mercato del lavoro unitario in Europa: sicuramente in una prossima vita rinasceranno commercialisti in Grecia con il vincolo di riciclarsi come idraulici in Brianza (o come farmacisti nei paesi baschi).

...e scala mobile
La cosiddetta "scala mobile" (living escalator) era un meccanismo di indicizzazione dei salari (wage indexation) che garantiva il recupero automatico della perdita di potere d'acquisto determinata dall'inflazione (una descrizione accurata è fornita da Marco Manacorda, 2004, "Can the scala mobile explain the fall and rise in earnings inequality in Italy? A semiparametric analysys: 1977-1993", Journal of  Labour Economics, 22(3)).

Meccanismi di questo genere vennero introdotti negli anni '70 in molti paesi europei. Un elemento ricorrente nella vulgata piddina è quello secondo cui la scala mobile avrebbe generato inflazione e la sua abolizione (forzata dal vincolo esterno) sarebbe stata l'elemento determinante nella sconfitta dell'inflazione stessa. Non entro qui su questo aspetto, che comunque non deve essere banalizzato. Tuttavia, osservando il profilo del tasso di inflazione italiano, esposto nella figura 6 del post precedente (che qui riporto per vostra comodità):



notiamo:
1) che l'inflazione era già in caduta libera quando la scala mobile venne riformata nel 1983, e:

2) che la sua abolizione nel 1991 non sembra aver esercitato un effetto percepibile sul tasso di inflazione.

Del resto, l'inflazione non è sorta perché i salari sono stati indicizzati. I salari sono stati indicizzati perché uno shock esogeno (la quadruplicazione del prezzo del petrolio) aveva determinato la fiammata di inflazione che vedete qua sopra.

Quindi, come dire, è naturale che rimuovendo una non causa dell'inflazione, sull'inflazione effetti mirabolanti non ce ne siano stati.

Ma su altre due cose sì.

La prima è la disuguaglianza dei redditi. Il già citato articolo di Manacorda stabilisce, analizzando un panel di lavoratori italiani osservati su cinque tornate di rinnovi contrattuali dal 1977 al 1993, per un totale di 19343 individui (precisazione per i piddini), Manacorda constata che a partire dalle riforme della scala mobile introdotte a metà degli anni '80 la disuguaglianza fra i redditi, che era andata diminuendo dal 1977 in poi, tornò ad aumentare, raggiungendo nel 1993 il livello di partenza. Questo processo penalizzò proporzionalmente di più (e ti pareva!) le donne.

La seconda sono i salari reali. Francesco Pastore studia (con la cointegrazione) l'impatto dell'abolizione della scala mobile sulla dinamica delle retribuzioni italiane, e trova, guarda un po', quello che è nei dati e che abbiamo visto nel post precedente, ovvero che il progressivo smantellamento dei meccanismi di indicizzazione, effettuato, lo ricorderete, al grido di "l'Europa chiamò!", ha alterato la relazione fra salari e produttività: i salari non sono riusciti a stare al passo con la produttività, i lavoratori hanno beneficiato in misura sempre minore dei frutti del proprio lavoro, e la quota di profitti è aumentata. Le politiche dei redditi degli anni '90 hanno determinato un impatto negativo permanente sui salari reali, oltre che sull'inflazione, senza tuttavia alterare la curva di Phillips di lungo periodo (la relazione fra salari reali e tasso di disoccupazione).

Quindi i lavoratori ci hanno rimesso in termini assoluti (salari più bassi) e relativi (più disuguaglianza). Non ricordo proprio chi sia stato l'autore di questo bel capolavoro! Qualcuno se lo ricorda?

Ah, e naturalmente in un mondo senza scala mobile, il lavoro deve diventare mobile.

Il che mi fa venire in mente un aneddoto di Chamfort:

"Je dirois volontiers des métaphysicien ce que Scaliger disoit des Basques: on dit qu'ils s'entendent, mais je n'en crois rien".

Con tanti auguri per il quadro del PD che dovrà riciclarsi come quadro dell'Euskadi Ta Askatasuna (per gli amici, ETA). Ma si sa, il piddino è colto e cosmopolita: sa di matematiche, di filosofie, e anche di un'altra cosa che non mi ricordo, ma della quale mi ricordo che il nominarla è inelegante.




Per i piddini acculturati: dirois, disoit è ortografia settecentesca. Lo so, voi pensate di essere colti: allora ricordatevi: initium sapientiae est timor mei. Non è un errore di stampa, è una minaccia.

mercoledì 25 aprile 2012

Svalutazione e salari (ad usum piddini): il mio 25 aprile

La seguo con interesse e comincio a capire qualcosa in più di economia ma qualcosa non mi torna: l'uscita dall'euro ci permetterebbe di riequilibrare i nostri rapporti economici con la Germania svalutando la nostra moneta invece di ridurre i salari.
Ma io ho sempre saputo e verificato nella mia sessantenale esperienza che il primo effetto della svalutazione alias inflazione è la riduzione del potere d'acquisto - valore dei salari. Dove sbaglio? Lo chiedo con molto rispetto, da incompetente

Julian Wells


Sessanta anni di esperienza non sono uno scherzo. Come minimo esigono che il rispetto sia ricambiato! Ora, io sono molto goloso, e anche molto rispettoso, di aneddoti. Indipendentemente dai risultati, sulla propria vita ognuno ha competenza, quindi riguardo ai suoi aneddoti lei certo incompetente non è. Solo che... questa è la famosa sindrome "mi' cuggino", quella che ai lettori di questo blog richiama l'immortale figura di Dana74, la gentile lettrice di CDC e dedicataria di questo post, alla quale proprio non entrava in testa il fatto che gli aneddoti raccontati dai giornali sulla situazione di alcuni operai tedeschi particolarmente privilegiati non fossero rappresentativi di un intero mercato del lavoro.

"Mi ha detto mi' cuggino che dopo la svalutazione è stato peggio"... Chissà... Anch'io dopo la svalutazione del 1992 ho perso i capelli. E dopo quelle degli anni '70 sono diventato miope. Ma (soprattutto in quest'ultimo caso) siamo proprio sicuri che la colpa fosse della svalutazione? Per verificarlo facciamoci aiutare non da un oculista, e nemmeno da un parroco (chi svaluta perde la vista) ma dai dati. Sessanta anni, di dati, non ne abbiamo. Ne abbiamo cinquantuno. Credo basteranno. Questa breve analisi ci permetterà di sfatare alcuni miti piddini, delle lievi imprecisioni (per la definizione rinvio a questo post) che enuncio:

1) la svalutazione è inutile perché si traduce in inflazione (svalutazione alias inflazione), dato che con una valuta più debole pago di più i prodotti importati: quindi, se da un lato io "drogo" la competitività perché faccio pagare di meno la mia valuta, dall'altro il prezzo dei miei beni aumenta (perché aumenta il costo degli input importati), e quindi per l'acquirente estero la situazione rimane invariata: paga meno le "lire", ma paga di più i beni italiani, i due effetti uguali e contrari si annullano: la svalutazione non aiuta la competitività;

2) l'inflazione è la più iniqua delle imposte in quanto abbatte il potere d'acquisto del povero lavoratore: se i prezzi aumentano, i salari perdono potere d'acquisto (certo, se non sono aumentati anche loro...);

3) quindi la svalutazione è inutile ed iniqua (somma delle precedenti).

(apro e chiudo una parentesi: la lieve imprecisione sub (2) oggi è il leit-motiv di personaggi come questo, ma viene comunemente attribuita, non so su quali basi, a quel comunista di Einaudi... e già questo dovrebbe indurre qualche sospetto, no?).

Penso che questo sia anche il meccanismo che lei ha in mente e che in qualche modo ha inferito dalla sua esperienza sessantennale. Bene. Si metta comodo. Se può capire, alla fine di questo post sarà un'altra persona, una persona migliore perché più informata di quello che è successo agli altri (che mi sembra di intuire le interessino). Se non può capire, amici come prima: avranno almeno capito gli altri.

La svalutazione è inutile perché si traduce in inflazione (svalutazione alias inflazione)
I dati ci sono, usiamoli. Dall'edizione 2010#12 delle International Financial Statistics del Fondo Monetario Internazionale estraggo le serie di tasso di cambio effettivo nominale (codice IFS: 136..NECZF...) e indice dei prezzi al consumo (codice IFS: 13664...ZF...), così vediamo come sono andate le cose.

Ma prima, forse, occorre qualche precisazione, per capire i dati.

Cos'è un tasso di cambio effettivo? Semplice. Un paese normalmente non ha un unico partner commerciale: ne ha tanti (nelle ultime statistiche quelli dell'Italia sono intorno ai 200). Quindi se si vuole capire quale sia l'effettiva forza di una valuta, non ha particolare senso far riferimento a un unico tasso di cambio, per quanto significativo (come ad esempio quello lira/dollaro, o, oggi, euro/dollaro). Molto meglio far riferimento a una media dei tassi verso tutti i partner, ponderata con le rispettive quote di mercato. Se il 20% del mio commercio va verso il marco e il 10% verso il dollaro, il cambio con il marco conterà per il 20%, quello col dollaro per il 10%, ecc.

Questo tasso "medio" viene espresso come indice, prendendo come riferimento un anno base, che viene posto uguale a 100. Come i cambi che lo compongono, l'indice può essere espresso "incerto per certo" o "certo per incerto". Vi ricordate come veniva quotata la lira? Quando passava da 1200 a 1250 sul dollaro significava che ci volevano 50 lire in più per acquistare un dollaro, cioè che la lira si era svalutata (e quindi che ci sarebbe dovuta essere inflazione...). Questa è la quotazione "incerto per certo". Oggi invece come viene quotato l'euro? Quando passa da 1.20 a 1.25 sul dollaro vuol dire che un euro compra cinque centesimi di dollari in più, cioè che l'euro si è rafforzato.

La quotazione "incerto per certo" rende più semplice verificare se una svalutazione si traduce immediatamente in altrettanta inflazione: se questa asserzione è vera, i due indici, quello del cambio e quello dei prezzi, dovrebbero muoversi insieme e nella stessa misura. Un "aumento" dell'indice del cambio vorrebbe dire che la lira ha perso forza, si è svalutata (occorrono più lire per acquistare la valuta straniera), e questo, se il piddino avesse ragione (ipotesi ardita) dovrebbe essere correlato "one to one" a un aumento dell'indice dei prezzi.

E infatti...


E infatti una bella sega, ovviamente, come la Fig. 1 mostra. Vediamo cosa ci dice, questa figura.

Intanto, sul periodo dal 1975 al 2009, l'Italia ha complessivamente svalutato in termini nominali del 45% (l'indice TCE, Tasso di Cambio Effettivo, vale 66 nel 1975 e 96 nel 2009), mentre l'inflazione complessiva è stata dell'840% (l'Indice dei Prezzi al Consumo, IPC, vale 12 nel 1975 e 108 nel 2009). Quindi? Quindi evidentemente nella dinamica dei prezzi c'è molto di più che non il tasso di cambio, che, qualora anche contribuisse, certo non pare possa contribuire in modo molto significativo, visto che l'aumento dei prezzi è stato circa 19 volte quello del cambio!

E già qui potrei fermarmi, perché vi ho dimostrato che chi vi ha detto certe cose non sa di cosa stia parlando.

Ma i sadici, si sa, adorano i dettagli: nulla vi sarà risparmiato. Perché voi potreste dire: "be', d'accordo, sì, c'è altro, lo sappiamo, però è evidente che il cambio contribuisce...".

E invece no! Due esempi, prima nella Fig. 1, dove li vede solo l'occhio esperto, poi con lo zoom. Nel 1979, in corrispondenza con l'inizio dell'avventura italiana nell'area del marco allargata (si chiamava Sistema Monetario Europeo, ora si chiama euro, ma è sempre la stessa cosa), la lira rivalutò del 22% (vedete come diminuisce bruscamente la linea blu?), ma l'inflazione aumentò dal 14% al 22% (vedete che la linea rossa diventa più inclinata?). Insomma: il contrario di quello che pensano i piddini (adesso, poi, pensano... una parola grossa: diciamo: il contrario di quello che ripetono). E volete il controesempio? Eccolo servito: fra 1992 e 1993, come sapete, la lira svalutò del 20% (vedete come si innalza bruscamente la linea blu?), ma l'inflazione diminuì dal 5% al 4% (vedete che la linea rossa diventa meno inclinata?).

Più in generale, vedete che il tasso di cambio, pur avendo minor varianza nel lungo periodo (si muove di meno: aumenta solo del 45%, mentre i prezzi aumentano dell'840%), ne ha molta di più nel breve: vedete come si agita la linea blu: sale, scende... si chiama volatilità. La linea rossa, invece, cioè i prezzi, è liscia: si chiama persistenza. Ecco: già la figura 1 dimostra, in due modi molto eloquenti, che non è vero che i prezzi si muovono in modo da annullare gli effetti dei movimenti del cambio:

1) non è vero, perché nel breve periodo il cambio si muove molto di più dei prezzi (quindi questi non riescono comunque a "cancellare" gli effetti di svalutazioni e rivalutazioni);

2) non è vero, perché in numerosi episodi i prezzi si sono mossi in senso opposto ai cambi (quindi, ad esempio, le svalutazioni - aumento del cambio - non sono state cancellate da inflazione - aumento dei prezzi).

Vediamolo in un modo diverso.


La Fig. 2 riporta i tassi di svalutazione e di inflazione. Non sono niente altro che la variazione percentuale degli indici riportati nella Fig. 1. Qui si vede in modo più chiaro che la rivalutazione del 1979 si verificò a inflazione crescente, e la svalutazione del 1993 a inflazione calante.


Svalutazione e inflazione nei favolosi anni '70
A questo punto arriva (o meglio, arrivava) sempre un imbecille che diceva: "Bagnai, tu sei fazioso, ci stai facendo vedere solo i dati a partire dal 1975 perché evidentemente prima le cose andavano in modo diverso e quindi tu vuoi nasconderci quello che succedeva". Amico imbecille, simpatica forma di vita malamente organizzata, alla quale dobbiamo il rispetto che a tutte le forme di vita si deve, incluso il ragno, la blatta e lo spaghetti-liberista, a parte il fatto che di quello che succedeva quaranta anni fa potrebbe anche non importarcene nulla, io riporto i dati dal 1975 solo perché la mia fonte li riporta a partire da quella data. Ma se vogliamo avere un'idea approssimativa di come le cose andassero prima, un modo c'è: possiamo guardare come si muoveva il tasso di cambio lira/dollaro. Sai, prima del 1975 (dal 1971 all'indietro) c'era il sistema di Bretton Woods, di cui il dollaro era il perno; e poi, sai, tu lo sai, e come se lo sai, ce le gonfi ogni due per tre con questa storia, il petrolio è quotato in dollari, quindi il cambio col dollaro è quello che incide sulla bolletta energetica...

Allora guarda: faccio questa operazione: ricostruisco all'indietro il cambio effettivo usando le variazione del cambio col dollaro. Poi, se vuoi, ti mando anche le market shares e i cambi nominali bilaterali, e tu ti calcoli il cambio effettivo (ma chissà se le sai, le tabelline...).

Comunque: il risultato è questo qui:


Ecco la big picture, così facciamo contento anche l'amico del tornese (amicus Plato, sed magis amica veritas). Dunque: prima del crollo di Bretton Woods la svalutazione/rivalutazione della lira era praticamente zero: la spezzata blu coincide con l'asse delle ascisse, cioè con lo zero. Ovvio: i cambi erano fissi, il che significa che non si muovevano.

Oh, che bel mondo! Aurea prima sata est aetas... Quindi... se i cambi erano fissi... se la svalutazione era zero... anche l'inflazione sarà stata zero!

No, tesoro, non è così. Vedi bene, amico spaghetti-liberista (scusi Julian se la trascuro, ma lo spaghetti-liberista è un amico di più vecchia data), vedi bene che anche a cambio fisso l'inflazione c'era, e come. L'inflazione dipende da tante cose (ecco, ora però non attaccate col coretto "monetasovrana", per favore...): ad esempio, negli anni '60 eravamo in pieno boom economico, e questo Julian lo ricorda, e quindi la pressione della domanda sulle risorse generava aumenti dei prezzi (per inciso, io sono nato nel dicembre del '62, ma per un anno sono andato avanti a latte materno, quindi il picco di inflazione nel '63, caro spaghetti-liberista, non è certo colpa mia).

Ma andiamo avanti, vediamoli, i dettagli. Che succede nel 1971? Il cambio scende, cioè la lira rivaluta. Be', se vogliamo metterla così... In effetti nel 1971 Nixon si sfilò all'inglese dal sistema di Bretton Woods per permettere al dollaro di svalutarsi: il deficit delle partite correnti non gli lasciava molta scelta. Certo: la svalutazione del dollaro, vista dall'Italia, somiglia molto a una rivalutazione della lira (Goofynomics): il cambio nominale scende... ma... horribile visu... e i prezzi che fanno? Salgono! Ma se la lira rivaluta!?

"Cazzo (penserà l'amico spaghetti-liberista): avrei fatto meglio a stare zitto: pensavo che Bagnai stesse nascondendo un episodio che gli dava torto, e invece ne stava solo nascondendo uno che gli dava ragione." Eh già, amico caro, come al solito: fosse la prima volta che succede!... A Roma dicono: datti una chiodata in fronte. Guarda, secondo me fra i miei lettori uno che ti aiuta lo trovi. Sì, pensa, nel 1971, mentre la lira rivalutava, l'inflazione già stava crescendo, e da un anno. E perché? Ma perché c'era stato l'autunno caldo, tesoro di papà, quello del 1969, ricordi? Gli operai si erano un po' seccati di tirare la carretta senza partecipare ai benefici, e quindi, sai, rivendicavano... volevano l'aumento... ma se io vi dico che l'inflazione si decide sul mercato del lavoro (salvo eventi catastrofici, che vediamo subito), mi volete stare a sentire?

Ecco... però... attenzione. Sapete (o intuite) che con questo lavoro mi sono fatto molti amici. Quelli che mi preoccupano di più sono quelli che stanno zitti, aspettandomi al prossimo concorso. L'amico del tornese mi preoccupa di meno perché parla. In una precedente occasione ebbe a esprimere nostalgia per il mondo di Bretton Woods, dopo il crollo del quale l'inflazione regnò sovrana (a opera, credo, della flessibilità del cambio...). E infatti, dirà, vedi, negli anni '70 l'Italia svaluta e l'inflazione decolla...

Eh no, non ci siamo... Amico caro, mettiti gli occhiali e osserva il grafico: il picco dell'inflazione negli anni '70 è nel 1974 (quasi il 20%), e si manifesta dopo che, per effetto del primo shock petrolifero del 1973, il prezzo del petrolio era quasi quadruplicato (un aumento del 258% per l'indice medio, e del 284% per il Dubai Fateh). Il picco della svalutazione è  successivo di due anni, si manifesta nel 1976, dopo che nel 1975 la recessione aveva determinato un calo del prodotto del 2% e passa, anche in conseguenza dei soliti tentativi di "difendere" il cambio. Quindi, ancora una volta, non è stata la svalutazione a causare l'inflazione. Eventualmente il contrario. E, nota bene: la svalutazione fu quella che serviva a recuperare la competitività che con l'inflazione si era persa: il 20%. Non ne serviva di più, e non ne serviva di meno. Ed è sempre stato, e sempre sarà così.

Apprezza poi il dettaglio, per inciso: anche in un mondo nel quale non si parlava di energie alternative, e nel quale la dipendenza dal petrolio era molto più spinta di oggi, l'inflazione fu solo il 7% dell'aumento del prezzo del petrolio! E allora cos'è questa storia con la quale ci scassate dalla mattina alla sera, che poarin'a nnoi, un sia mai 'e si esce dall'euro, ohimmèna, i' ppetrolio ci spianterà...

Certo: la bolletta energetica mette un bel freno alla crescita dell'Italia. Ma il discorso è più articolato, o se volete, meno scemo, di come lo si sente fare di solito. Se volete un giorno lo facciamo. Per ora, cacciatevi in testa questo: chi fa terrorismo su questo tema è, appunto, un terrorista (di destra).

Alio modo: il cambio reale
Ma allora, ricapitoliamo: se non è vero che la svalutazione nominale viene immediatamente e integralmente annullata da aumenti dei prezzi, cioè se non è vero che "svalutazione alias inflazione", se anzi è vero che le variazioni dei prezzi, come i dati mostrano, sono più lente e più contenute di quelle del cambio... quindi... quindi... quindi la svalutazione nominale influisce sulla competitività! Quindi non è vero che svalutare è inutile!

Bravo, hai capito. E del resto i dati ci dicono anche questo. Perché sai, all'IMF si danno un sacco da fare: fra un colpo di Stato (se va bene finanziario, altrimenti militare) e l'altro, fra una "raccomandazione" e l'altra, stanno lì e compilano, compilano... Quindi producono anche le statistiche del tasso di cambio reale, cioè del rapporto fra prezzi italiani e prezzi esteri, espressi nella stessa valuta. Ora, vedi, se l'Italia svaluta (il cambio sale), per il resto del mondo i suoi beni diventano più convenienti (il cambio reale scende). Perché? Ma per la Goofynomics, tesoro caro. Facciamo il caso Italia/Usa. Se il cambio italiano sale perché ci vogliono più lire per acquistare un dollaro, dall'altra parte ci vogliono meno dollari per acquistare una lira, e quindi i beni italiani diventano convenienti rispetto a quelli statunitensi, e il cambio reale (rapporto fra prezzi italiani e prezzi statunitensi espressi nella stessa valuta) scende.

Se la svalutazione nominale fosse inutile, invece, quando il TCE si muove, il cambio reale dovrebbe stare fermo!

E le cose come stanno? Stanno così:


Vedi, caro: quanto l'Italia svaluta (e quindi il tasso nominale, in blu, sale, perché ci vogliono più lire o euro per acquistare la valuta estera), siccome, come abbiamo visto, non c'è necessariamente più inflazione, il prezzo dei beni italiani in valuta estera scende rispetto a quelli dei beni esteri, e quindi il loro rapporto (Tasso di Cambio Reale, TCR) scende, cioè i nostri beni costano meno per gli acquirenti esteri, cioè diventano più convenienti, cioè la svalutazione serve. Perché non si traduce tutta e subito in inflazione. Vedi come vanno "a specchio" le due serie? Ma si vede ancora meglio se consideri la loro variazione percentuale. Eccola qua:


Vedi che bella correlazione negativa? Tutte le volte che svalutiamo, i nostri beni diventano più convenienti.
Quindi? Quindi "svalutazione alias inflazione" una bella sega, direi. Ci sono più cose fra svalutazione e inflazione di quante il limitato numero di sinapsi piddine possa concepire: non si faccia trarre in inganno, gentile lettore: nell'esperienza storica la svalutazione del cambio nominale non si è tradotta automaticamente e integralmente in inflazione, tutt'altro. Il pass through, cioè il trasferimento, della variazione del cambio sui prezzi interni è estremamente ridotto nella nostra, come in molte altre economie.
Ma... è una novità? Una mia scoperta? Esiste un qualche fottutissimo motivo per il quale un economista (o uno dei tanti guitti che si dichiarano tali) possa ignorare queste realtà?

No.

Sono risultati di studi scientifici ben noti, sono cose che stanno in tutti i libri di testo. Esempio: Giancarlo Gandolfo, 2002, International Finance and Open Economy Macroeconomics, Berlin, Heidelberg: Springer Verlag, pag. 290, dove si cita, fra l'altro, questo studio della Banca centrale del Brasile, le cui conclusioni stabiliscono che nei paesi OCSE (fra cui l'Italia) il pass through è molto basso, molto più basso che nei paesi emergenti.

Dice: ma dobbiamo proprio arrivare in Brasile per farcelo dire da uno studio scientifico? Rispondo: amici cari, i nostri banchieri centrali sono tutti lì, coesi, a farci paura con lo spettro della svalutazione che genera inflazione... Fanno propaganda... Come volete che i nostri piccoli Goebbels si dedichino a uno studio scientifico sull'argomento, il quale tragicamente smentirebbe la loro propaganda, come la smentiscono le evidenze descrittive che vedete qui sopra? E quindi, viva il Brasile...



L'inflazione è la più iniqua delle imposte perché danneggia la vedova, l'orfano, e il proletario (fatevelo dire da me, che sono un banchiere centrale a 60000 euro di appannaggio al mese)
Forse qualcuno, arrivato qui, ha capito di essere stato preso in giro. Magari lo aveva intuito, da sempre, che certe frasi erano grossolane menzogne, pura propaganda, pura disinformatia. Ma certo, vederselo significare così, coi dati... Capisco possa fare effetto... E forse voi capite me: io queste cose le so, da sempre, e so anche che tutti gli altri le sanno, guitti compresi. E quindi capirete che ogni tanto mi girino.

Ma mai quanto gireranno a voi quando avremo affrontato questo altro caposaldo del pensiero piddino. Ma, ancora una volta, pensiero è una parola grossa. Diciamo, un altro caposaldo dell'ecolalia piddina, della petulante, querula, impacciosissima reiterazione di luoghi comuni da parte di persone alle quali, un giorno o l'altro, bisognerà pur chiedere il conto per il fatto che hanno contribuito a metterci nella condizione nella quale stiamo (oh, un conto politico, si intende. Le randellate, quelle, come sapete, se le danno già da soli: con la sinistra).

Perché vedete, il ritornello è sempre il solito: "meno male che l'euro ci ha difeso dall'inflazione, perché l'inflazione erode il potere di acquisto...". Già. Però c'è anche chi non la vede così. Vediamo ad esempio cosa dice Nicola Acocella, a pag. 121 di "La politica economica nell'era della globalizzazione", Roma: Carocci (22 euro spesi bene), parlando dello Sme, cioè degli accordi di cambio fisso ma aggiustabile che, come ricorderete, furono il prodromo dell'euro:

"Il funzionamento... dello SME sembrava, però, soddisfare in questo modo la precondizione per il raggiungimento dell'obiettivo, che qualche paese si era posto, di introdurre un elemento esterno di disciplina al comportamento di alcuni operatori: sa la politica monetaria nell'ambito dello SME era sostanzialmente quella fatta dalla Germania, notoriamente ispirata a obiettivi di stabilità dei prezzi, i comportamenti interni degli operatori negli altri paesi dovevano adeguarsi. Questa ipotesi sembra abbastanza plausibile e capace, fra l'altro, di concorrere a spiegare perché la Banca d'Italia, inizialmente contraria all'adesione allo SME, lo abbia poi accolto senza riserve, invocando, anzi, gli obblighi di mantenimento della stabilità dei cambi che ne discendevano per contrastare politiche salariali... ritenute inflazionistiche (politica del cambio forte)"

Insomma: Acocella ci dice che l'adesione prima allo Sme, e poi all'euro, insomma, l'ingresso coatto in quella che Francesco Carlucci chiama la zona del marco allargata (L'Italia in ristagno, Milano: Franco Angeli, 2008, altri 22 euro spesi bene), insomma: la moneta unica aveva uno scopo ben preciso: quello di tagliare le retribuzioni al grido, ultimamente diventato assordante, di "l'Europa chiamò".

E come si fa a vedere se ha ragione Enrico Letta o Nicola Acocella? Ad esempio guardandoli negli occhi, mi sentirei di dire. Ma non voglio imporre a nessuno la sofferenza umana di guardare negli occhi Enrico Letta. E allora guardiamo i dati. Perché una cosa è chiara: se ha ragione Letta, allora dovremmo aspettarci che nei periodi con maggiore inflazione i salari perdano potere di acquisto, cioè i salari reali (salari divisi per i prezzi) calino o crescano di meno. Se ha ragione Acocella, allora dovremmo aspettarci che dopo l'ingresso nella "zona del marco allargata", cioè dopo il 1979, i salari reali calino o crescano meno velocemente. Basta fare un grafico per vedere com'è andata. E il grafico è questo:


(l'indice dei salari reali è costruito deflazionando con l'indice dei prezzi al consumo quello delle retribuzioni contrattuali, codice IFS 13665...ZF...).

Fischia! Alla faccia dell'imposta più iniqua! Vorrei avercela io un'imposta così! Cosa dice il grafico? Semplice: che tutte le volte che l'inflazione comincia a calare (come dal 1965 al 1969, e dal 1980 ad oggi), i salari reali smettono di crescere. E quindi che da quando siamo nella zona del marco allargata (cioè dal 1980) i salari reali sono stati praticamente fermi, nonostante si sia vinta la guerra contro il nemico pubblico numero uno: l'inflazione (nemica della vedova, dell'orfano, ecc.).

Ripeto: salari reali fermi: linea blu praticamente piatta dal 1980 (come, dalla nascita, certi elettroencefalogrammi). Lo vedete, no?

"Ehi, amico? Ma mi stai dicendo che i dati dicono il contrario di quello che dice Letta? Lui dice che quando l'inflazione aumenta io perdo potere d'acquisto, cioè il salario reale cala o cresce poco. E siccome lui è di sinistra, e io sono di sinistra, evidentemente è così, perché, sai, è un po' come nel Candide: se lo ha detto Leibniz, io che sono un filosofo..."

Eh...

Piddino mio, benché il parlar sia indarno
alle gravi lacune
che dentro al cranio tuo sì spesse veggio,

lasciati almeno dire una cosa: io lo so che non è colpa tua!

Aspetta, lo spiego ai miei lettori (abbia pazienza, Julian). Vedete cari, la colpa non è del piddino. Lui, poraccio, ha un neurone solo. Quindi se gli dicono "prezzi", lui nel suo unico neurone ci alloca i prezzi, e poi non ne ha un altro per allocare il numeretto dei salari. E quindi non riuscirà mai ad avere un'idea esatta di cosa succeda al rapporto fra salari e prezzi (cioè al salario reale) quando l'inflazione c'è, e quando non c'è. Ma se volete una sintesi, ve la fornisco io. Negli anni '70 l'inflazione ha viaggiato a una media del 12% all'anno, e i salari reali (cioè il potere di acquisto dei lavoratori) sono aumentati in dieci anni del 65% (un po' più del 6% all'anno). Dal 1980 a oggi, cioè nel favoloso periodo della zona del marco allargata, cioè da quando l'Italia ha tentato di agganciarsi a una valuta più forte della sua, l'inflazione ha viaggiato in media al 6% all'anno, e i salari reali sono aumentati, in 30 anni, del 17% (un po' più dello 0.5% all'anno).

Vi fa ancora paura l'inflazione? Certo, qualcuno non lo avrà ancora capito, ma glielo spiego io: se non siete dei capitalisti, amici cari, con un po' più di inflazione stavate meglio. "Ma Letta dice il contrario!" Ma Letta vi sembra un proletario? A me sembra piuttosto un parente...

Certo, adesso arriverà il solito furbo che dirà: "ma appunto, l'orrenda inflazione degli anni '70 era dovuta all'ingordigia dei lavoratori: loro volevano essere pagati, e quindi alzavano il costo del lavoro, e tiravano su l'inflazione. E poi, si sa, è normale: ultimamente i salari reali stanno fermi perché i lavoratori italiani non sono produttivi. Abbiamo un problema di produttività...".

Alt, fermi tutti! Le cose non stanno esattamente così. E ve lo faccio vedere in un altro modo, perché noi la produttività dell'Italia qui la abbiamo studiata, oh, se l'abbiamo studiata!


Ecco, vediamola insieme ai salari reali. Cosa ci dice il grafico? Ci dice che dal 1970 al 1974 i salari reali sono cresciuti di pari passo con la produttività, come ci si aspetta in un normale equilibrio di lungo periodo con distribuzione del reddito costante. Poi nel 1975 c'è la recessione (vedete un "dente" negativo nella produttività) e nel 1976 il Partito Comunista Italiano (PCI) raggiunge il suo massimo storico: 34.4%. Comme par hasard le retribuzioni reali cominciano a crescere più della produttività. Cosa significa? Significa che, spaventati, i capitalisti italiani preferirono far aumentare un po' meno i loro profitti, e un po' più i salari dei lavoratori. Ma durò poco. Con l'ingresso nell'area del marco allargata, cioè dopo il 1979, la lotta di classe cominciano a farla i capitalisti: la produttività continua a crescere (perché gli italiani lavorano, nonostante quello che pensa Sinn), ma, guarda caso, al grido di "l'Europa chiamò" i salari vengono compressi, repressi, e rimangono stazionari, fino a che, nel 1995, il divario si chiude, e da allora stanno fermi sia loro, sia la produttività.

Capito cosa voglio dire quando dico che l'euro (e prima lo Sme) sono stati usati come strumento di lotta di classe? Voglio dire che da quando ci siamo sentiti dire "lo vuole l'Europa" la dinamica (e quindi la quota distributiva) dei salari è stata compressa (e quindi quella dei profitti si è allargata). A questo serve l'euro. Non a difendere la vedova e l'orfano. A difendere il capitalista e il rentier. E non lo dico io. Lo dice (diplomaticamente) Acocella, che ben descrive il modo in cui i banchieri centrali "indipendenti" cominciarono a scodinzolare attorno alla moneta unica non appena colsero il fatto che il peso politico del PCI era declinante (i famosi carri armati...), e lo dicono, meno diplomaticamente ma più asciuttamente, i dati.

Dite la verità: ora siete ancora più incazzati, no? E ci credo! Scusate se vi ho rovinato la giornata. A buon rendere... Questi sono i dati che i tanti piccoli Goebbels che vi parlano non vogliono farvi vedere, e del resto sono anche i dati che Donald è incapace di farvi vedere. Ma per fortuna c'è Goofy.

Quindi la svalutazione è inutile e iniqua
Ehi, amico piddino! Sei ancora qui? Non sei andato a nasconderti? Ecco, allora vedi che è come dico io? Con te è proprio inutile parlare.

Conclusioni
E allora, gentile lettore, tornando a lei, che conclusioni trae confrontando la sua esperienza con quella aggregata, con quella degli altri? Mi scusi, sa, non mi sono dedicato tanto a lei, ma ai miei tre migliori amici: il piddino, lo spaghetti-liberista, e l'amico del tornese. Ma se lei ha seguito, avrà comunque capito cosa è successo in Italia, e forse avrà anche capito dove lei sbaglia. Lei mi ha chiesto di dirglielo, e io glielo ho detto. Lei sbaglia (cortesia vorrebbe che aggiungessi "secondo me", ma verità vuole che io aggiunga: "secondo i dati") in due snodi del suo ragionamento: primo, la svalutazione non coincide con l'inflazione; secondo, l'inflazione non coincide con la perdita di potere d'acquisto da parte dei lavoratori. E certo che siccome il suo ragionamento di snodi ne aveva solo due, la situazione è un po' problematica, ma non lo dico per mancarle di rispetto, ma solo per provocarla a una riflessione.

Le variabili che incidono su questi tre fenomeni (svalutazione, inflazione, distribuzione del reddito) sono tante, e la lotta all'inflazione storicamente è stata lotta di classe... al contrario!

Ha capito ora a cosa serve il vincolo esterno? Ha capito a cosa serve la rigidità del cambio? Senta, io meglio di così non glielo so spiegare. Se lo ha capito, ora sta a lei spiegarlo a chi si trova intorno. Se non mi son riuscito a spiegare, avrà capito altre cose. In sessant'anni glie ne saranno capitate, di cose da capire, come a me in cinquanta. Non le ho mica capite tutte, e soprattutto non ne ho capita subito quasi nessuna. Ma ho insistito (invano?).

E alla fine la cosa che ho cercato di spiegarle oggi credo di averla capita. E credo anche che sia stata la cosa più importante nella storia recente del nostro paese. Voi che ne dite?


Oggi è l'anniversario della liberazione, e ho voluto contribuire anch'io liberandovi dal vero fascismo: quello dei luoghi comuni. Ora siete liberi. Sta a voi usare bene questa libertà. Sperando che ve lo lascino fare.